«Ciao, pa'. Come va?».

«Maddai, nel telefono ci sei tu! Queste diavolerie d’oggi! Ti sto vedendo dal telefono di tua sorella. Che diavolerie…» (si intravede mia sorella che fa gesti con le mani tipo “calma”, “calma” ...).

«Volevo solo salutarti… Stai bene?» (tentativo di voce nonchalante).

«Ma sì! Beh, pure tu, vedo. Sembri ingrassato, quindi male non stai».

«Senti, pa'… Me lo manderesti un bacetto?» (voce un filo incrinata).

«Ma perché?» (si sta innervosendo).

«Mi manchi un po’» (voce molto incrinata).

«Ma figlio mio, a oltre cinquant’anni vuoi un bacetto da me! Da me! Non lo volevi alla quinta elementare! IO ti manco? Ma se a Natale abbiamo litigato, mi chiedi un bacetto? Ah, ah, ah, cough, cough, cough…» (si sta strozzando dalle risate e, col respiratore d’ossigeno non è il massimo: il viso va trascolorando in una sfumatura melanzana decisamente non chic).

Cambio inquadratura. La faccia di mia sorella. Ha le labbra serrate che apre a scatti come il pupazzo diabolico di un ventriloquo. «Ti rendi conto che, DI QUESTI TEMPI, metti a rischio la salute di nostro padre, con richieste assurde, quando non vi siete mai potuti sopportare? Sei un potenziale assassino, sei. No. Sei un irresponsabile immaturo».

«Ma io…».

«Telefona quando sei calmo e mai più in videochiamata».

Click. La mia faccia riflessa nello schermo nero dell’iPhone. Un Black Mirror.

Letteralmente.

Di questi tempi, appunto, quelli e quelle della mia generazione che sono gioiosamente andati via di casa negli anni Novanta per costruirsi un futuro, per rifarsi la vita e il girovita ma soprattutto per comportarsi come mai papà e mamma gli avrebbero permesso di fare – dallo strisciare insensatamente la carta di credito con pagamenti rigorosamente rateizzabili, fino allo strusciarsi selvaggio con «come avevi detto che ti chiami, scusa?», chiesto il giorno dopo per cortesia tra le lenzuola, per sentirsi dire: «Ma non ce lo siamo mai detti!» - noi che ci sentivamo belli, moderatamente ribelli, ma liberi, liberi, liberi dopo una faticosissima giornata di lavoro, beh: di questi tempi coronati da un virus bastardo, noi single stiamo raschiando il barile di sentimenti antichi, deamicisiani, anacronistici. La devozione filiale. La tenerezza di ciò che poteva essere e non fu con amicizie genere «adesso che abbiamo il numero, teniamoci in contatto, eh? Mi raccomando!», e poi mai più sentite. Perfino un sottile rimpianto per coloro a cui abbiamo detto «no» con impeto e addirittura un filo di rammarico per tutti quelli/e che ci hanno detto «no» e a cui garantimmo eterno rancore. C’è perfino chi arriva a rimpiangere gli/le ex.

Dichiaro che è vero: l’algoritmo di Netflix, che ormai conosce me meglio di quanto mi conosca io, propone stremato di rivedere film italiani anni 70. Questo significa che devo costituirmi alla verità: i single si sentono soli. Soprattutto se non anziani, diciamo molto adulti e forzati dentro le mura della loro pur confortevole e ben arredata casuccia, piena di belle cose, scarpe, libri, film, musica, vestiti. Cose che invece di suscitare un benefico senso di mariekondismo («Non sarebbe il caso di mettere in ordine quei pullover ammassati ognuno costato uno stipendio, oppure regalali a chi ne ha veramente o bisogno o le occasioni per metterseli?»), te li fa guardare con una certa condiscendenza e lasciare che l’entropia aumenti fino al punto di dirsi: un giorno questo sciupio di soldi ti sarà inutile. E comunque, tienili per quando, se sopravvivrai a tutto questo, sarai costretto a venderli su eBay perché con la crisi, dopo, magari ti licenzieranno.

Cercate di capirci, noi boomer. Arrivati qui, abbiamo finto che Milano fosse un surrogato della Manhattan di Woody Allen e delle Torri Gemelle, all’epoca intatte come le nostre speranze. Abbiamo recitato la parte di componenti di classi sociali più agiate delle nostre d’origine. Ci crogiolavamo in eventi patinati preceduti dalla presentazione del libro più discusso del momento, libro di cui avremmo parlato fino a tarda sera, tra un tentativo di rimorchio e un altro, a un cocktail sulla Terrazza Martini, un posto da cui però non si vede né il fiume Hudson né la Martesana.

Ci sentivamo protagonisti di mode, valori, desideri e dinamiche relazionali imprevedibili e poco ortodosse. Abbiamo vissuto l’amore in tutte le sue dimensioni, soprattutto quelle più conflittuali, senza voler pervenire a conclusioni definitive. La Generazione Z non ci crederà, ma ragazzi, ve lo posso giurare. C’è stato un periodo della nostra storia lontana in cui essere single era una figata. Ok, sono solo, ma almeno sono emancipato, non dipendo da nessuno, non devo accettare compromessi.

E quando ho trovato l’anima gemella il cui cuore si è incastrato perfettamente con quel pezzo di puzzle che è il mio, tutto bene. Meglio vivere separatamente, però: avere i propri spazi consente di conservare la propria autonomia e dedicare la giusta concentrazione ai progetti personali. Però, se l’anima gemella si trova geograficamente lontana e non vi potrete vedere fino a che ne so, come canta Mahmood in Rapide (Mi ami, dimmi di no / Tradire fa ridere ti prego non dire no, che testo meraviglioso), il confino domestico e la virtuale impossibilità di incontrare altre persone in modalità ravvicinata si fanno sentire. Eccome.

E allora ti fai sentire tu, ma non soltanto per paura del Triste Mietitore che potrebbe pure falciarti, visto che sei nel segmento di età in cui il virus incoronato inizia a picchiare duro, ma perché questo soggiorno obbligato ti offre (nella solitudine di casa, silenziata la playlist dei brani preferiti di Spotify e finito pure l’ultimo episodio di The New Pope su MyTv perché Netflix l’hai prosciugato a dovere e lo smart working l’hai fatto, anche se in maniera non smart), una seconda possibilità.

Ti restituisce a te stesso in quella bolla di vulnerabilità che un microscopicissimo pezzo di proteina cattiva e intelligente ti ha costruito intorno. E quel te stesso sei comunque sempre tu, ma con molta più storia, esperienza, maturità.

Richiami il Casanova che si vantava di non avere mai avuto una relazione singola, ma almeno quattro “fidanzate” insieme e per non più di due mesi: lo senti cambiato, spaventato, indifeso. E l’ultima conquista femminile gli ha riso in faccia dicendo che non vedrebbe un futuro con uno ormai così attempato. Richiami la noiosissima amica ipocondriaca che avevi spazzato via dalla tua esistenza perché egoisticamente ripiegata su sé stessa e quindi senza partner se non il termometro, e la ritrovi assolutamente identica: terrorizzata dal vivere da sola col suo gatto mentre non lavora. Ma oggi la giudichi con più dolcezza, e lei se ne accorge e, per la prima volta in tutta la sua vita, ti chiede come stai.

Ritelefoni all’amico gay che non vedi da dieci anni dopo una brutta discussione, quello che si vantava di farsene tre in una sera e «non capisco come mai vi siate così imborghesiti, voi sposati»: si spoglia ancora una volta, ma solo per trasmetterti una dolorosa emotività più vibrante: la sua mamma è intubata, in provincia, dopo che è risultata positiva e sta male, molto male. Però ancora non gli permettono di andarla a trovare perché, uno che ha superato indenne l’era dell’Aids, ora potrebbe ucciderla solo con uno starnuto.

Il confino in casa porta alla consapevolezza di riconoscere l’altro per ciò che è ora e produce il desiderio di rapporti smascherati, dove tutti giochiamo a carte scoperte, con l’amarezza che ormai possediamo la saggezza della maturità semplicemente perché siamo cresciuti.

Questo è il dono inaspettato di un’epidemia: rimettere insieme il passato con il futuro, voler conoscere tutti i successivi percorsi della vita dell’altro e predisporsi all’ascolto senza temere di farsi ascoltare.

Forse io e miei nuovi/vecchi amici “vocali” non diventeremo una sgangherata famiglia allargata, perché siamo tutti troppo diversi. Ma il coronavirus e le misure restrittive che comporta, allarga la comprensione degli altri. Ci regala una seconda chance, visto che dopo tanti anni il modo di vivere e vedere il mondo di quando un tempo ci frequentavamo, allora non aveva avuto il tempo di emergere. Si apprezzavano aspetti estetici e passionali, ma la conoscenza dell’altro era estremamente bassa, basata soprattutto sulla idealizzazione del proprio egocentrismo. Ok, ma adesso che ti ho ringraziato, brutta particella talmente minima da non essere neppure definita vivente, cerca anche tu di ricongiungerti a quello per cui sei nata: far nascere qualche scintilla di pensiero nel male oceanico che stai creando. E diventare un brutto ricordo. Non preoccuparti di ringraziarmi, vai pure. Ah, e a proposito: perdonami se non ti ho accompagno alla porta d’uscita del mio cervello, ma chiudi bene bene la porta. Scusa, eh. Devo fare una chiamata.

P. S. Stamattina papà mi richiamato dal suo telefono fisso. Mi ha chiesto se quel bacetto lo volessi ancora.