Chi saremo quando l'epidemia del Coronavirus sarà finita? Se oggi sentiamo la mancanza di gente che non cercavamo mai solo perché non possiamo salire in auto per raggiungerla, che ne sarà di questo sentimento? Forse è retorica per sognatori parlare dell’acqua cristallina a Venezia, dei delfini al porto di Cagliari, dei germani reali nelle fontane romane e delle rilevazioni satellitari che mostrano l’aria della Lombardia pulita come sopra la foresta amazzonica. È prevedibile che quando usciremo da questa specie di Grande Fratello senza conduttrice e senza diretta settimanale, che almeno spezza la monotonia dei concorrenti, il premio finale sarà un pianeta molto cambiato dove avremo paura di camminare come su un tappeto nel salotto della regina Elisabetta e forse non avremo il coraggio di risporcare tutto selvaggiamente.

Ma della novità più grossa ci accorgeremo solo una volta liberi. Il contatto prolungato con l’aria aperta, mescolato alla consapevolezza che non dobbiamo scappare a casa appena finita la spesa, agirà su di noi come l’ossido sul ferro. Solo in quel momento alchemico ci accorgeremo di tutti i cambiamenti che stiamo subendo e che si tradurranno, con le nostre azioni, in una società a cui non siamo preparati. Chi può passarci degli spoiler? Li abbiamo chiesti a cinque luminari visionari, una filosofa, uno storico, un informatico, una scrittrice, una psicologa che hanno composto il puzzle del nostro futuro imminente, sul quale la cosa che si legge meglio è un monito scritto piccolo piccolo in un angolino in basso a sinistra: speriamo di non essere così sciocchi da buttare via tutto.

Laura Boella, autrice di Empatie, L’esperienza empatica nella società del conflitto (Cortina Editore), insegna Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano

Una cosa fragile si rompe facilmente. Ma sono le cose preziose, quelle più fragili

In questo periodo in cui tutti parlano è difficile dire cose che non siano state già dette. Ci vuole umiltà per fare dei pronostici ma c’è una frase che non si può evitare di dire: niente sarà più come prima. La si può interpretare in vari modi, ad esempio, con nostalgia perché non ci muoveremo più con la leggerezza di prima. Oppure perché ci siamo resi conto che possiamo vivere con meno. Con meno velocità, con meno consumi, con meno cattive abitudini, mentre potremmo adottarne di nuove e buone. Questo niente sarà più come prima non è qualcosa a cui di può dare una risposta definitiva oggi, dobbiamo mantenere il finale aperto. Ma sappiamo che dovremo pensare in maniera diversa, usare i nuovi strumenti che ci stanno aiutando a comprendere anche in modo intellettuale questa cosa che ci è cascata addosso. Il primo effetto che ci accorgeremo di saper percepire sarà il senso della fragilità. Ci sentivamo quasi tutti in forma, stavamo bene, ci preoccupavamo di avere un lavoro, una casa, ci sentivamo in condizione di andare avanti, di migliorare. Adesso invece ci è arrivato addosso questo senso della finitezza, dei limiti della nostra forza e della nostra esistenza. Questa parola, fragilità, che è anche sinonimo di impotenza, di mancanza di controllo della situazione, di governo su quello che sta accadendo, genera frustrazione e la domanda “io cosa posso fare?”.



Ma possiamo associarla anche a un’altra idea. La cosa fragile si rompe facilmente. Ma quali sono le cose che si rompono facilmente? Quelle più preziose. Un bicchiere di cristallo che si rompe solo a sfiorarlo, figuriamoci a lavarlo. La riscoperta della nostra fragilità ci farà riscoprire che siamo preziosi, tutti quanti. Non siamo solo corpi esposti alla paura del contagio, siamo tutti esseri preziosi proprio per la nostra vulnerabilità. Di conseguenza scopriremo che una cosa preziosa si cura, si tratta con cautela, con rispetto. Con amore.

Amedeo Feniello, storico, lavora presso l'Isem-CNR di Cagliari e insegna Storia medievale all'Università degli Studi dell'Aquila; il suo ultimo libro è I nemici degli Italiani (Laterza)

La storia non è maestra di vita, se lo fosse non ci saremmo trovati in questa situazione



Nessuno di noi ha la palla di vetro, in piena emergenza è difficile fare previsioni, siamo immersi nell’incertezza. Però posso fare delle analisi in base a quello che è successo nel passato. Premettiamo: la storia non è maestra di vita, se lo fosse non ci saremmo neanche trovati in questa situazione. La storia può darci però delle indicazioni, tracciare una strada. A noi storici viene in mente la più grande pandemia di sempre, la peste nera. Iniziata alla fine del 1200 in Cina, probabilmente nello Hubei, a Wuhan la stessa zona da dove è partito il Covid 19, è diventata pandemia intorno agli anni 30 del 1300. Ci ha messo un tempo molto lungo per arrivare in Europa e ha mietuto un terzo dell’umanità. Al tempo non c’era nessuna conoscenza medica, nessun farmaco che potesse aiutare, non si sapeva l’esistenza dei virus per cui si pensava fosse la volontà di Dio che colpiva un popolo di peccatori facendo scaturire umori dalla terra. Anche se oggi le stiamo affrontando con maggiore razionalità, le modalità per contenere il contagio erano le stesse: quarantene, isolamenti e chiusure perché si capiva almeno che questo morbo passava da una persona all’altra. Pensate al Decameron, con i tre ragazzi e le sette ragazze che si isolano in campagna. Il cordone sanitario è l’unica misura. Cosa succede dopo? Uno shock ha sempre una risposta. Quando si arriva al margine del caos sembra che tutto si corroda e scompaia. Invece le società umane sono capaci di creare degli “anticorpi sociali”, dei vaccini sociali che permettono la ripresa. La peste del 1300 ha portato una serie di cambiamenti drastici dell’assetto sociale. Le persone morivano ma lasciavano i loro patrimoni a gente nuova, che emergeva. Presero vita una serie di cambiamenti economici, finanziari, politici, andarono in crisi grandi istituzioni come il papato e l’impero, nacquero i grandi Stati nazionali. La resilienza ha permesso la nascita di una cultura nuova: il figlio della grande crisi epidemica del 1300 è stato il Rinascimento. A Prato c’è la casa di Francesco di Marco Datini, grande mercante del 1300, uno degli inventori della finanza e del capitalismo odierno. Aveva perso i genitori con la peste nera e per tutta la sua vita si mosse sul principio: “cosa posso fare per migliorare questo mondo, per renderlo più elastico e duttile davanti alle crisi e agli shock?”. Si inventò il sistema di aziende: diventò il “papà” delle holding. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ci sono stati 30 anni di glorioso boom economico, la riscoperta del gusto della vita che è stata la risposta sociale a quello shock. Certo, è difficile dirlo mentre ci siamo drammaticamente dentro, ma una crisi va intercettata come un’opportunità. La società perderà dei pezzi importanti, è vero, entreranno in crisi i sistemi, si rimetterà in discussione persino il concetto di Europa come è concepito ora. Ma nascerà qualcosa di nuovo, che sarà frutto della complessità e dell’esperienza di oggi.

Marida Lombardo Pijola, scrittrice e giornalista, autrice del best seller Ho 12 anni faccio la cubista mi chiamano Principessa. Il suo ultimo libro è L’imperfezione delle madri (La nave di Teseo).

Taglieremo come rami secchi le relazioni ormai finite

In questi giorni seguo tutti i meme e i lavori di fantasia che stanno producendo gli italiani ed è bellissimo quello in cui un signore dice che sta in casa da due giorni con la famiglia e che gli sembrano “delle brave persone”. Ci sono tante famiglie di cui i membri non si conoscono affatto tra loro, e ne stanno scoprendo ora i dettagli. I miei figli, sentendomi canticchiare De André mi hanno detto “ma senti come canta bene mamma!”. Hanno scoperto che il padre gioca bene a scacchi, che ama il Monopoli e che ascolta Mozart e io ho scoperto che mio figlio di 24 anni sa a memoria i testi delle canzoni di Battisti e De Gregori e che uno dei due soffre per amore, e mi ha chiesto consigli. La casa per noi era solo un luogo dove sfamarsi, dove tornare la sera e dormire. È diventato un luogo dove condividere attività. Certo, ci saranno anche famiglie che implodono, in Cina sono aumentati i divorzi e probabilmente succederà anche da noi. Ma anche questo sarà un bene, si taglieranno i rami secchi di rapporti che si trascinano in un equilibrio precario che per i figli è dannoso. La conferma che non si sta più bene insieme permetterà di chiudere e ricominciare con altri. Una sorta di igiene familiare. La gente sta poi scoprendo quella che io chiamo “la solitudine condivisa”, cioè isolarsi dal resto del mondo, ma tutti insieme, formando dei piccoli atolli. Io ho parlato per la prima volta con la mia vicina di casa, a Roma, perché prima non c’era mai stato tempo. Ora invece abbiamo scoperto la voglia di sapere se l’altro si sente come te. Riusciremo a conservare tutto questo? Molti lo dimenticheranno, inutile illuderci. Ma noi saremo lì a ricordarglielo. Questo deve diventare un monumento della memoria, e non solo per gli episodi drammatici.

Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica presso l'università di Milano, insegna criminalità informatica all'università di Bologna; il suo ultimo libro è Tecnologie per il potere - Come usare i social network in politica

Chi fomenterà l'odio durante la ricostruzione lo chiameremo "sciacallo"

Ci sono due grandi cambiamenti drastici in corso. Uno riguarda l’odio. Quando ho scritto libri sull’odio e sull’uso dell’odio in politica avevo notato che tanti studiosi dicevano che il fenomeno della polarizzazione è stato negli ultimi dieci anni uno dei fattori più importanti nel generare odio. Per polarizzazione si intende che ci sono due posizioni, soprattutto nella politica, fermamente una da una parte e una dall’altra che non cercano di incontrarsi al centro. Cercano invece di fidelizzare i proprio seguaci e di umiliare e bullizzare l’avversario. La prima cosa che ho notato in questi giorni è che la polarizzazione si è attenuata. Tutte le forze politiche, tutte le parti della società, i commentatori, tranne qualche caso eccezionale che lo fa per folclore, sono allineati sull’idea di abbassare le polemiche, nel seguire una linea comune. Quando si segue una linea comune, in questo caso tracciata per la necessità di superare questa emergenza, crolla la contrapposizione. Anche fra esponenti politici non eravamo abituati a questi toni concilianti. Si nota più acrimonia nelle discussioni sulle questioni mediche, ad esempio, c’è stata circolazione di fake news sul tipo di virus e sulla sua diffusione, che hanno messo radici nel terreno dell’insicurezza e dell’indecisione. Però è crollato l’odio istituzionale. È rimasto un po’ di conflitto interpersonale, gente che litiga con quelli che non rispettano i divieti, ma niente in confronto a quello a cui siamo abituati. Cosa succederà dopo? Secondo me chi cercherà di riportare in vita la polarizzazione mentre si ricostruisce un paese, sarà accusato di sciacallaggio. Passiamo all’altro cambiamento, che non ha che fare con l’odio. Molti hanno sperimentato che gran parte delle attività, il lavoro intellettuale, le consulenze, la didattica non si sono fermate stando a casa. Anche se c’è qualche problema da risolvere – capita di sentir dire che non si può fare un collegamento perché ci sono bambini piccoli in casa – abbiamo capito che per lavorare non c’è bisogno per forza di un ufficio, di una sede fisica. In Italia è una tradizione fortissima, c’è il concetto di “portare avanti lo studio di famiglia” inteso come immobile. In America invece si parla di “morte dello studio”, ci sono già molti avvocati giovani che lavorano solo con un laptop, uno smartphone e un tablet. Con l’inevitabile crisi economica che seguirà, non dover pagare un affitto potrebbe essere allettante. Questa è stata la prova generale, abbiamo scoperto di essere pronti a fare questo passaggio e che mancava la volontà. Questo modo di lavorare, per molti, potrebbe essere quello definitivo. E alzerebbe il livello di democratizzazione.

Valentina Battisti, psicologa e psicoterapeuta, insegna all'università Cattolica e all'Istituto romano di psicoterapia psicosomatica integrata, di cui è direttrice; insegna a psicologi e medici come diventare psicoterapeuti.

Abbiamo imparato che si sta bene anche da soli, non cercheremo più amori sbagliati

Stiamo vivendo qualcosa che rimarrà nella storia e che racconteremo ai nostri nipoti e pronipoti, dato che l’ultima pandemia è stata quella della spagnola di 100 anni fa. Come saremo domani? La paura del contagio ci sta cambiando profondamente e ci metterà in condizione di sentirci meno “onnipotenti”, più consapevoli delle nostre fragilità interne. Stiamo imparando a vivere emozioni forti senza spaventarci, a far fronte positivamente agli eventi traumatici. Smetteremo di sottovalutare i problemi e, soprattutto, ci riferiremo molto di più a esperti e fonti autorevoli per le questioni importanti, invece di stare dietro alle fake news. Ci adatteremo meglio ai cambiamenti repentini, sapremo riorganizzare più rapidamente la nostra vita dinanzi alle difficoltà, e stiamo sviluppando una maggiore sensibilità nel cogliere le opportunità che la vita ci offre, senza dissociare la nostra identità. Ritroveremo un nuovo slancio, ciò che in una parola oggi molto popolare si chiama “resilienza”. Apprezzeremo di più i momenti di solitudine. Dopo la prima fase di smarrimento, infatti, lo stare con noi stessi a riflettere su ciò che accade, ci sta connettendo con ciò che veramente desideriamo, permettendoci di sviluppare una migliore conoscenza di sé. Questo ci consentirà di scegliere meglio chi dovrà stare vicino a noi, invece di attaccarci a chiunque pur di non restare soli. Vivremo di più nel presente, non procrastineremo gli impegni perché abbiamo imparato che ci potremmo trovare in una condizione di emergenza che ci impedisce di portarli a termine. Visiteremo la zia anziana a cui vogliamo bene e che rimandiamo da settimane, ci chiariremo faccia a faccia con un’amica. Si cercherà forse di attivarsi e di essere più celeri di fronte ai bisogni personali e degli altri, senza rimandare. Saremo più comunicativi e comprensivi con i familiari con i quali ora siamo costretti a stretto contatto: figli, genitori, coniugi, fratelli. Cominceremo a comprendere meglio il loro punto di vista sulle cose, a conviverci, a conoscerli. Ma anche con quegli “sconosciuti” come i vicini di casa che, in questi giorni di quarantena, non ci è pare vero di incrociare davanti al cassonetto della spazzatura per fare due chiacchiere a distanza. I continui appelli a pensare soprattutto a chi è più a rischio ci stanno rendendo più sensibili nei confronti di chi soffre, e siccome siamo “tutti nella stessa barca”, cominciamo a metterci nei panni del collega con i genitori anziani, del vicino rimasto senza lavoro, dell’infermiere che fa turni h24 in urgenza e a chi ha lontani gli affetti. Riusciremo a chiamare i problemi con il loro nome senza negarli. Saremo meno persecutori e meno paranoici. Vedremo i lati buoni, i lati positivi.