Essere figli adulti di genitori lontani è un lavoro difficile pure quando la vita è normale, figurarsi ora. Da quando c'è la pandemia, tutti abbiamo una collezione di differenze che ci hanno fatto rendere conto di quanto siano cambiate le cose: una delle mie è che ora parlo con mia madre e mio padre tutti i giorni, probabilmente ci sono state più telefonate in questo mese che negli ultimi cinque anni. Vivo a Milano, dopo l'ultima stretta del governo a centinaia di persone è stato impedito di prendere i treni per il sud, tra le motivazioni respinte c'era anche: «Ho i genitori soli e lontani». È ragionevole, nel calcolo di rischi e opportunità la possibilità di portare con sé il virus pesa di più di qualunque attenzione o spesa a domicilio possiamo garantire. La consegna del bravo figlio oggi è stare fermi e telefonarsi, però io ogni sera prima di dormire penso alle emergenze che possono esserci, a come sarebbe quel Frecciarossa verso la Campania nel caso succedesse qualcosa, a cosa dire ai gate della stazione per convincere i poliziotti a farmi passare, ripasso mentalmente la conversazione e il piano e poi, più o meno, mi addormento, con la suoneria al massimo. Le telefonate quotidiane con i miei servono a raccontarci cose che iniziano essere uguali come uguali son i giorni (la spesa, le file, hai trovato la mascherina, c'è gente in giro), a starci un po' vicini ma soprattutto ad assicurarci che nessuno tossica, e per ora nessuno tossisce.

Nel dubbio io continuo a ripassare le conversazioni e strategie prima di dormire.

Essere figli adulti di genitori lontani e separati di recente è una complicazione in più sul lavoro già di suo difficile, perché mia madre e mio padre non possono sorvegliarsi a vicenda (avrebbero comunque fatto un pessimo lavoro) e l'attenzione in questo panottico filiale a distanza deve essere moltiplicata. È come essere figli due volte, una per genitore, nessuna economia di scala è contemplata. Ogni famiglia, poi, ha la sua specifica forma geografica e questa pandemia, tra i milioni di effetti, ha avuto anche quello di renderci dolorosamente consapevoli della geografia, della dislocazione dei legami, delle distanze di cose e persone, che sono sempre state malleabili e negoziabili, cinque ore e sei a casa, finché non lo sono state più. Per esempio: mia madre vive a Napoli, si occupa delle piante, ha un cane da portare in giro e una mascherina di dubbia utilità, comprata in un negozio che vende detersivi. Ha i suoi acciacchi, alcuni seri e di lungo corso, quelli che nel linguaggio dei bollettini delle 18 si chiamano comorbilità. Ha capito la gravità della situazione con la lentezza ideologica di un sindaco di una città produttiva del nord: negando e minimizzando finché è stato possibile, poi aprendo gli occhi di botto. Esce poco da molti anni, quindi fa parte di quella categoria di persone che avevano uno stile di vita già pronto alla pandemia prima della pandemia. Elemosiniamo illusioni di controllo ovunque sia possibile. Io ho salvato sul telefono il numero per le emergenze Covid 19 della Campania, i video di De Luca che minaccia i lanciafiamme alle feste di laurea mi inquietano come cittadino, però a un livello più segreto mi fanno sentire tranquillo su mia madre e le sue sporadiche uscite col suo cane, ogni giorno guardo gli aggiornamenti e la curva della Campania, numero di tamponi, numeri di contagiati, percentuali e incrementi.

Anche lui ha delle mascherine di dubbia utilità e delle comorbilità che mi tengono sveglio.

Mio padre la geografia l'ha forzata di più, per carattere e traiettorie di vita, visto che da anni è impegnato in un progetto di coppia transcontinentale Italia Brasile con relativo pendolarismo, una delle cose meno pratiche al mondo già in tempi sani e non infetti. Ora è lì, ci sentiamo ogni sera prima di cena, a favore di fuso orario, su Whatsapp e con connessioni ballerine. Sembrava tranquillo, fino a qualche settimana fa, ora hanno chiuso tutto e c'è lo stesso allarme che viviamo in Europa. Quella del Brasile è l'altra curva di contagi che guardo tutti i giorni, è al ventunesimo posto nella tetra classifica dei paesi più colpiti, quello messo peggio in Sudamerica, 1209 casi e un presidente negazionista. Nell'ansia, mi sono trovato a leggere un articolo sui tassi di posti letto in terapia intensiva pro capite, sono 36mila per 209 milioni di persone. Mio padre è preoccupato per me che sono in Lombardia, io per lui che è lì, l'ho messo in contatto con l'ambasciata e con l'Alitalia, un ponte di conversazioni e appigli, ha un volo per tornare, che per ora è stato confermato, io ho già una lista di piani B e C nel caso venisse cancellato, e poi quelli D ed E per la quarantena obbligatoria che dovrà fare al ritorno nel suo appartamento da divorziato anziano. Anche lui ha delle mascherine di dubbia utilità e delle comorbilità che mi tengono sveglio. L'Italia è il paese con l'età media più alta d'Europa (83,6 anni), ma demograficamente si smette di essere sani abbastanza giovani, a 61 anni (in Svezia succede a 72 anni, per esempio). I corpi dei nostri genitori - quando diventiamo figli adulti - diventano precocemente fragili, una fragilità che statisticamente dura più di vent'anni e che è uno dei compiti principali nelle vite dei figli adulti italiani. La pandemia esaspera e allarga queste paure, di solito sono sullo sfondo e ora invece sono un'ansia quotidiana. Nelle conversazioni quotidiane poi si parla anche di cose più mondane, piante e conoscenti con mia madre, calcio e conoscenti con mio padre. È il modo per dirci: fate i bravi, ci vediamo dall'altra parte.