Verso metà marzo ho domandato a mio marito: “Ma non ti mancano le partite?”

E lui, serafico: “No”.

Io: “Non ci credo. Fai come me quando fingo disinteresse per le borsette in saldo”.

Lui: “Davvero. Pensavo che ne avrei sofferto ma niente”

Io: “Ma come? L’anticipo del sabato? Il posticipo della domenica? Le Champions contro squadre straniere del mercoledì? E la Coppa Italia? E la Coppa del nonno? E la coppa e il capocollo?”

Lui: “Zero”.

Ci sono quasi rimasta male. Povera Inter, povera Nazionale, tanto amate e così a lungo e adesso, puf, lontane dagli occhi e lontane dal cuore in un attimo.

Poi, il giorno di Pasquetta, sento arrivare dal televisore un grido “Schillaci, Schillaci, Schillaci!”.

Oddio. Totò Schillaci me lo ricordo bene. Un siciliano nervoso con una faccia che sembrava uscita da un capolavoro del cinema neorealista, la rivelazione di Italia ’90. Lavoravo in un giornale che ci fece una copertina in edizione straordinaria: si andava di corsa in edicola, allora, anche solo per leggere le imprese di un calciatore che tutti avevano appena visto in televisione. Altri tempi.

Ma non divaghiamo.

Il televisore è rimasto acceso sullo stesso canale, per un po’, mi ci sono appassionata anch’io. Dopo Italia-Irlanda di quei mondiali fatti a casa nostra, ci siamo messi a cercare altro su Sky Sport ed è stata una macchina del tempo, una mitragliata di ricordi.

Ma tu guarda chi giocava nella Juve? Quello dell’acqua minerale! E nel Milan, Kaka!? Era un bambino! E Cassano che fa il giro del campo sfilandosi la maglia, che personaggio, l’imitazione di Fiorello faceva schiantare. Uuuh, guarda Pato! Stava con la Berluschina allora! Oh ma non gioca più nessuno di questi qui? Solo due: Ibrahimović e Messi, sentenzia il marito. Infine, ecco l’Inter del “Triplete”, di José Mourinho, bello e incazzoso come pochi. Sky riassume le partite della stagione 2009-2010 in pochi flash, facendo vedere quasi solo i goal e commentando con pezzi tormentone del momento. Lady Gaga, Stromae, Mika, Kings of Leon. Ma soprattutto: folla abbracciata ad altra folla, tutti appiccicati nel rito tribale e senza nemmeno l’ombra di una mascherina.

Vengono i brividi a pensare che proprio una partita (Atalanta-Valencia, a Bergamo, il 19 febbraio) è stata una vera e propria “bomba biologica” in Lombardia. Vengono i brividi a pensare che un calciatore della Juve (Daniele Rugani) è stato il primo atleta italiano positivo al virus e che abbia giocato, benché a porte a chiuse, ma in mezzo a tutti i suoi compagni, il giorno prima che gli comunicassero l’esito del tampone.

Adesso molte società e istituzioni sportive vorrebbero lo screening di massa di tutti (giocatori e staff) per ricominciare gli allenamenti a maggio e concludere le partite mancanti del campionato, ovviamente a ancora a porte chiuse, a fine luglio.

A porte chiuse, già. È una soluzione? Una delle ultime partite, appunto Juve-Inter, era stata giocata così, nello stadio vuoto. Risultato? E chi se lo ricorda. Ha vinto la tristezza. Meglio non pensarci. Meglio rivedere la finale di Berlino del 2006, quell’Italia Francia della testata di Zidane a Materazzi e di Buffon che parava anche i missili. Che nostalgia.