C’era la guerra, scappammo da Milano su un treno di notte; un aereo inglese ha cominciato a mitragliarci, ci siamo messi a correre in mezzo alla neve, illuminata dalla luna... È l’aneddoto principe che mio padre ha tirato fuori alla fine di numerose riunioni famigliari. La storia proseguiva e a noi restava in mente la parola misteriosa con cui terminava il racconto, sfollato: eravamo invidiosi per quella condizione di sospensione. Ed eccoci sfollati a nostra volta, senza bombe, senza una luna che renda la fuga leggendaria.

È in casi così che si comprende in cosa consistano i legami, quanto siano necessari e imprevedibili, perché non c’era stata una prova generale. S’improvvisava. E dopo i primi tremolii-la figlia piccola che, dopo l’ennesimo bollettino televisivo da noi accolto con occhi sbarrati, si mette a piangere, non dimenticate che anch’io ho paura - si è presentata la difficoltà numero uno delle relazioni nelle famiglie allargate al tempo della crisi. La logistica. Dove stare. Con chi. I rifornimenti di cibo e affetto. Sono andato alla ricerca di un equilibrio impossibile: dare a ognuno, alla madre sola, al figlio grande, alla piccola e alla sorella, al padre con il cuore malandato già (e di nuovo) sfollato da gennaio, il senso della mia presenza. E ho fallito.

Passati pochi giorni, complici calcoli errati, divorzi, decreti e ordinamenti improvvisi, la situazione era la seguente. Sette persone si trovavano distribuite su cinque indirizzi: mia madre a casa sua, mio padre al mare, mio figlio da me a Milano, mia figlia grande con sua madre (la mia ex), io, compagna e figlia piccola in autoisolamento obbligatorio in Toscana. E mi sono sentito responsabile di questa separazione degli affetti. Ho provato a rimediare con una routine di telefonate e messaggi, dosando allarmi e speranze secondo caratteri ed età. Così facendo, rassicuravo me: se riuscivo a placare l’agitazione nell’altro, la situazione era davvero sotto controllo. In una famiglia, si resta specchi anche da lontano. A sera, ognuno di noi ripeteva all’altro: un altro giorno è passato e siamo qui. C’è stato il periodo delle rassicurazioni -no, non morirai senza vedermi! - quello delle precauzioni (bufale incluse): non camminare con le scarpe in casa. È arrivato il momento delle incaute previsioni: il picco? Mah, secondo me...

La prova ha poi tirato fuori il meglio da tutti.
Mia figlia, che non credevo coraggiosa, mi ha inviato un selfie sorridente, maschera, occhialoni coprenti e guanti con pollice alzato, pronta a far la spesa.
Mia madre ha dimenticato le mille preoccupazioni che l’attanagliano di solito. Il problema è diventato: cosa faccio con il colore? Sa che io preferisco non vederla con i capelli grigi: ecco, questa volta non me li tingo! Una tipica, amorevole ripicca materna. Il figlio, in una sera in cui non sapevo dove stare, avevo le valigie pronte ma il cervello no, dicendomi non guidare 450 chilometri di notte in questo stato, si è messo dalla mia parte, più grande di me. Mio padre, intercettando disagio nella mia voce, ha svelato che sua madre, mia nonna, aveva vinto persino la Spagnola.

Più che la paura, la figlia piccola, ha presto capito che la vera difficoltà era restare in contatto con le amiche e, grazie al benedetto router, ha organizzato le giornate come se abitasse per conto suo.
Mi accorgo che in sette stiamo scrivendo un capitolo della nostra epica famigliare; mancano i treni mitragliati, non ci siamo ancora abbracciati, intanto “camminiamo nella neve”, dando ognuno prova di capacità nascoste. L’unico compito che mi spetta veramente è riconoscerle.