Per la nostra rilevazione dell'opinione pubblica sulle piattaforme del digitale italiano, il Barometro Hearst Italia, un semiologo legge la realtà di questo periodo straordinario e terribile.

In questi giorni di crisi, si è fatto un gran parlare in rete del delicato rapporto fra l’epidemia e la comunicazione. Come rivolgersi al virus? Come raccontarlo? Quali metafore usare? Come comportarsi al suo cospetto? Si può riflettere su come lo stesso concetto di virus risieda a metà fra medicina e comunicazione, riferendosi sia alle particelle subatomiche infettanti che funestano le nostre vite sia al mondo dell’informazione e in particolare a quello della rete. Virale, insomma, è sicuramente il famigerato Covid ma è anche il video di Susan Boyle che canta al Britain’s Got Talents (242 milioni di visualizzazioni), sorprendendo il pubblico con la sua meravigliosa voce. Ma quale fra questi due ambiti viene prima?

Come ricorda Paolo Fabbri (qui in pdf), è la comunicazione – potremmo scherzosamente dire: Susan Boyle – a precedere i nostri odiati agenti patogeni, se è vero che i modelli che spiegano la diffusione dei virus siano stati forgiati a partire dalla vecchia teoria dell’informazione. Il virus è, infatti, tale innanzitutto per le sue peculiari modalità di riproduzione, per il modo attraverso cui, come l’informazione, circola nella società. Ogni virus degno di questo nome – sia che ci riferisca all’entità microbiologica pocanzi evocata o all’ultimo meme – ci chiede, allora, di prendere posizione di fronte alle sue modalità di circolazione.

Daily Life In Burano Island During The Covd19 Emergencypinterest
NurPhoto//Getty Images

Se le cose stanno davvero così, il problema dell’epidemia si trasforma, da questione di dominio sanitario in problema socioculturale. Come comportarsi di fronte alla sua pervasività? Cosa fare o non fare per evitare il contagio? Si capisce come le risposte a queste domande possano essere molteplici proprio in funzione dello scenario in cui vengono poste. Se è vero che la crisi del Coronavirus è un fenomeno di portata globale, la risposta al rischio da esso veicolato, invece, dipende dal particolare territorio in cui si ritrova a girare: in Cina, per esempio, non si è andato per il sottile, intervenendo pesantemente sull’autonomia personale in nome dell’emergenza collettiva. Al contrario, paesi come la Svezia hanno puntato tutto sulla responsabilità individuale di modo che lo stato è intervenuto in merito solo blandamente evitando provvedimenti drastici come le chiusure indiscriminate di negozi e attività produttive a cui abbiamo assistito altrove in questi giorni. Interessante la via seguita dall’Italia, che ha puntato tutto su una sorta di ritrovata unità nazionale di fronte al pericolo che ha a tutti gli effetti accompagnato le rigorose misure emanate dal governo.

Major Cities In The U.S. Adjust To Restrictive Coronavirus Measurespinterest
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D’altra parte, la ribalta del Coronavirus è stata velocissima. In poco tempo, il virus, da entità sconosciuta e innominata (ricordiamo che esso è stato battezzato soltanto due mesi fa), si è trasformato in una star, il cui messaggio però rimane imperscrutabile. E qui arriva una delle domande fondamentali dell’umanità di fronte alla sofferenza. Qual è il senso del Coronavirus? Cosa vuole da noi? È proprio l’oscurità del suo senso profondo al centro di tantissime discussioni on e offline. Si tratta di una punizione divina, come hanno affermato religiosi appartenenti a tutte le fedi? O al contrario di una sorta di rivincita della natura, di fronte alle tante mancanze di cui l’umanità si è resa colpevole? Quale lezione imparare dalla sua venuta? Di fronte al virus si diffonde, così, una sorta di attesa messianica ansiosa di cambiamento che però non sa dove rivolgersi: all’iperconsumismo di cui abbiamo sperimentato durante i mesi della quarantena la futilità (si può sopravvivere benissimo perfino senza barbieri e parrucchieri)? alla coscienza ambientale , da rinnovare in un impegno più serio e responsabile? Anche qui domande. Che galleggiano sulle nostre bacheche, domande che non facciamo che rivolgere a noi stessi, sui media, come allo specchio.

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Ecco, sempre Paolo Fabbri ha messo in luce come i social media svolgano in questi giorni così difficili una sorta di catalizzatore del contatto umano, offrendosi come unico appiglio di socialità, di collettivo nell’attesa che qualcosa lì fuori succeda. Proprio questo versante dell’attesa è fondamentale nel modo in cui ci stiamo relazionando ai nostri profili social in questi giorni. Essi si sono riconfigurati per rappresentare le attività di tutti noi, soggetti che, proprio nell’attesa, hanno cominciato a fare cose inusuali, ogni volta rimandate in nome del tran tran quotidiano. Proviamo a farne un elenco:

1) Cucinare

Prima della crisi era un tutto un tripudio di masterchef e gastromaniaci, volti a fotografare compulsivamente qualsiasi cosa passasse loro sotto i denti. La crisi del Coronavirus ci chiama a dismettere i panni da wannabe alla ricerca dell’ultimo trend gastronomico per rimetterci ai fornelli, cucinando per i nostri cari, per la famiglia, con quello che passa il convento. E così facendo – magia – ritrovando il senso perduto della tavola, il piacere della convivialità fra intimi.

2) Workout

Costretti tra quattro mura e liberi dalle incombenze precrisi, riusciamo finalmente a trovare un po’ di tempo da dedicare alla cura del corpo, ricercando un nuovo equilibro fra alimentazione ed estetica, mente e corpo.

3) Occuparsi dei bimbi


Si sa quanto faticoso possa essere seguire i piccoli nelle loro necessità quotidiane. La crisi del Coronavirus, con la chiusura delle scuole, accresce a dismisura l’impegno richiesto. All’inizio è dura. Anche in questo caso, con il tempo, però, si impara ad apprezzare la ricchezza del tempo trascorso a “combattere” (!!!) con loro. Di regola, nel mondo precrisi, il rapporto genitori/figli è dato per scontato (e quindi trascurato) in nome delle mille occupazioni della vita quotidiana. Ma a ben vedere forse non c’è nulla di più importante.

4) Rapporto di coppia

Riguardare vecchi film (Harry ti presento Sally!), trovare il coraggio di iniziare l’ennesima infinita serie tv insieme al proprio partner, sperimentare con lui o lei una vera e prolungata convivenza può essere perfino piacevole. Si è fatta molta ironia sulla notizia che in Cina la quarantena forzata abbia fatto aumentare vertiginosamente il numero delle richieste di divorzio. A noi piace pensare che molte altre coppie, in questo periodo di convivenza, abbiano potuto approfittarne per ritrovare i motivi profondi del loro stare insieme.

Tutto ciò avviene, come si diceva, nell’attesa che l’incubo finisca. D’altra parte, però, proprio per il fatto di essere tutti insieme, sui social, facciamo quotidianamente circolare tante storie. A pensarci bene, infatti, è proprio quando la gente è nell’attesa, alla stazione o in fila alle poste che i rumor, così come i virus, cominciano a correre. Ci vuol poco che nello specchio deformante creato da questo virtuale assembramento di persone il virus diventi un prodotto di laboratorio manipolato da gente senza scrupoli per sottomettere l’umanità. Ma senza ricorrere a questo tipo di esagerazioni, tutti noi vediamo moltiplicarsi sotto i nostri occhi le voci di anonimi leader che danno il loro punto di vista sulla crisi. Così facendo contribuendo a far aumentare la confusione, il senso di smarrimento raccontato da Gianfranco Marrone, alcuni direbbero di angoscia , di questi giorni. Le storie sul Coronavirus si diffondono viralmente di bacheca in bacheca, mentre gli altri combattono.

Street Style  - Paris Fashion Week - Womenswear Fall/Winter 2020/2021 : Day Ninepinterest
Claudio Lavenia//Getty Images

E arriviamo così alla metafora della guerra. In rete si è molto discusso sull’appropriatezza di usare un lessico e dei riferimenti propri del mondo militare alla lotta contro il virus. Ad esempio su Doppiozero, Internazionale, Il Manifesto, Treccani. Quando i nostri politici usano espressioni apparentemente neutre come “guerra al virus” o fanno le cronache dal “fronte degli ospedali” magari a fine giornata soffermandosi sul “bollettino di guerra” e la sua macabra conta di morti, in realtà stanno rappresentando il fenomeno dentro uno scenario conflittuale, estremo dove tutto ciò che conta è vincere, costi quel che costi, schiacciando il nemico. Che però – al contrario che negli scenari di guerra – è sfuggente, non si vede, è allo stesso tempo fuori e dentro di noi, ovunque.

E allora forse vale la pena, come suggerisce Bruno Latour, uscire da questo schema, provando a immaginare un mondo diverso. Se è vero che il Coronavirus ha messo in discussione tutte le nostre certezze, imponendo una drastica frenata a un treno che sembrava inarrestabile – il capitalismo sfrenato e incurante dei danni ambientali – verrà un domani. Domani, quando si ricomincerà a vivere, possiamo sempre ricordarci di come, qualora davvero lo si voglia, questo treno possa essere fermato. In tal caso, sarà meglio avere già un’idea di cosa ci piacerebbe mettere al suo posto. Parliamone.

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