Ora che in un modo o nell'altro andiamo incontro al futuro, è giunto il momento di chiederci: cosa ricorderemo di questi mesi? Ci sono tre, quattro momenti che io terrò per sempre. Sono come i post-it su una lavagna, o appunti presi quando la lezione è iniziata da poco e la mente è fresca. L'ultimo pomeriggio libero, il primo sabato di marzo, una giornata già tiepida, la gente che si allenava al parco, le chat degli amici parlavano già solo del virus, e c'era quella sensazione imminente che tutto stesse per cambiare. Quella sera ci fu la snervante attesa di un messaggio di Conte, arrivato poi nella notte. Mi svegliai e dissi: è successo, ci hanno chiuso dentro. Ricorderò per sempre il 27 marzo, il giorno in cui siamo stati tutti vicini al punto di rottura: la conferenza della Protezione Civile raccontava il picco giornaliero dei morti, oltre 900, e subito dopo la benedizione del Papa nella piazza vuota e assurdamente blu. Intorno a questi appunti, il flusso è più indistinto, i giorni troppo simili tra loro, le settimane fuse in un blocco solo.

La verità è che non posso sapere cosa ricorderò. Come per l'andamento dell'epidemia, nessuno conosce gli effetti a lungo termine di un periodo così sulla memoria. Diversi ricercatori (come ha fatto pubblicamente Dorthe Berntsen, docente all'Università di Aarhus) sostengono che avremo ricordi sfocati e indistinti, la pandemia come una macchia grigia. Ho chiesto alla professoressa Anna Borghi di aiutarmi a capire se sarà davvero così: è docente di psicologia cognitiva all'Università La Sapienza e sta svolgendo in queste settimane studi sulla memoria semantica, su come sta già cambiando il significato che attribuiamo alle parole, alle cose, alle parti del nostro corpo. Mi chiede di tenere bene a mente un fatto che è sempre difficile da accettare: ogni memoria è una ricostruzione e nessun ricordo è mai fedele. La sua costruzione individuale è qualcosa di fragile e complesso, una negoziazione continua tra quello che saremo e quello che siamo oggi. Ricordiamo quello che vogliamo ricordare, quello che possiamo ricordare e quello che ci succede di ricordare: la nostra mente non è interessata al realismo. Detto questo, Borghi spiega che ci sono due meccanismi in atto oggi: il primo ha a che fare con i grandi traumi collettivi: «Ci sono ricerche sull'11 settembre, sull'assassinio di Kennedy o la morte di Lady Diana, che ci mostrano come certi ricordi funzionino come delle istantanee, infatti si chiamano flashbulb memory». Un flash che parte nell'istante in cui accade qualcosa di importante. La fotografia resta con noi, piena di dettagli vividi e casuali, come quando ho scritto ai miei amici: state guardando il Papa? «Il secondo filone è la memoria autobiografica, che ci permette di mettere in fila i grandi cambiamenti della nostra vita: la prima volta che siamo andati a vivere da soli, la laurea, il matrimonio. È il motivo per cui le persone ricordano meglio i primi trent'anni della propria vita: sono pieni di svolte epocali». È il filo di quella che a un certo punto inizi a chiamare: «la mia vita», la volta che ti sei innamorato, la volta che hai deciso di cambiare città, la volta che hai perso qualcuno. In quel film ci sarà la volta che ci hanno separati dal mondo, e la storia di quando abbiamo dovuto imparare tutto daccapo: come si va al ristorante, come si tocca una maniglia, come si sceglie una spiaggia. Da un lato, il CoVid-19 sarà un flash, come la morte di Lady D, dall'altro un grande capitolo della nostra vita, come il primo giorno di liceo o un divorzio.

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photo by Stephen Harmon /Historical Society of New York

Poche settimane fa la New York Historical Society, il museo più antico di New York, ha ricevuto per posta un poncho degli Yankees. Era stato inizialmente donato agli infermieri di un ospedale, per proteggerli e fargli coraggio. C'è chi manda cupcake, chi manda pizze, uno sconosciuto aveva spedito il poncho degli Yankees. Non serviva a niente da un punto di vista sanitario, ma chi lo ha ricevuto non se l'è sentita di buttarlo via, per non sprecare quel gesto spontaneo di solidarietà, e così lo ha mandato al museo, che lo ha immagazzinato e conservato a futura memoria. Il 7 aprile la Historical Society aveva lanciato un appello ai newyorkesi: non gettate via mascherine, avvisi di chiusura, lettere, foto, cartelli di protesta, annunci condominiali, noi conserveremo tutto, perfino le e-mail con cui le aziende vi mandavano in smart working. L'iniziativa si chiama History Responds, era stata attuata già per l'epidemia di HIV o l'attacco alle Torri Gemelle. «Il nostro obiettivo è assicurarci che storici e persone comuni possano capire cosa abbiamo davvero vissuto in questi mesi di pandemia», mi risponde Rebecca Klassen, una delle ricercatrici che stanno mettendo insieme le donazioni, un lavoro difficile durante lockdown ed emergenza sanitaria, ma importante, perché la memoria è un atto che parte dal presente. Con altri formati, è quello che sta provando a fare Gabriele Salvatores, che ha chiesto agli italiani di raccontare come stanno vivendo questo momento, mandando video da assemblare in un documento collettivo per il futuro. Sono operazioni che ruotano intorno alla stessa domanda: oltre la fase due, tre e quattro, cosa ricorderemo?

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photo by Stephen Harmon / Historical Society of New York

Secondo la professoressa Borghi non siamo destinati a dimenticare, ad avere un ricordo vago e annebbiato dei mesi più duri. Potrebbe accadere a chi ha avuto esperienze personalmente traumatiche, medici e infermieri in prima linea, le persone ricoverate o chi ha perso qualcuno a causa del virus. Per gli altri, i ricordi saranno vividi e andranno solo incoraggiati, sempre perché la memoria è un negoziato parte nel presente. Quello che abbiamo imparato o riscoperto durante il lockdown merita di essere conservato e tramandato, come le testimonianze condivise in queste settimane dall'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, che contengono i racconti della quotidianità degli italiani in altri momenti difficili, storie di fame, desiderio, nostalgia e inventiva. «Un diario è ancora oggi uno strumento prezioso, ma funziona meglio se integrato a oggetti di tipo diverso, fotografie, disegni, piccoli oggetti», mi dice Borghi. Il consiglio è crearsi una versione piccola, familiare e privata della New York Historical Society. È qualcosa che i nostri account social possono fare solo in parte: la nostra esistenza digitale è già dispersiva nel presente, immaginate quanto potrebbe essere frustrante consultarla in futuro. Sarà più facile (e bello) aprire una scatola o un quaderno che scrollare centinaia di pagine su Facebook alla ricerca dei post del 2020. Oggetti, pagine e magari anche una bandiera per raccontare ciò che abbiamo usato per tenere duro nei mesi più strani. «I diari privati sono uno strumento di valore incalcolabile per gli storici», aggiunge Rebecca Klassen da New York, «Spesso sono l'unico modo per capire come si sentivano davvero le persone durante una determinata epoca». Il museo ha invitato le persone a condividere non solo oggetti ma anche la storia che c'è dietro: una donna ha donato una mascherina fatta a mano, in una lettera ha spiegato che non aveva mai cucito niente in vita sua, ma era così infuriata col governo per la mancanza di dispositivi di protezione individuale che si è guardata decine di video su YouTube per imparare, e ne ha realizzate centinaia da donare ai suoi vicini. Insomma, da un lato è solo una mascherina come tante, dall'altro racconta tutte le miserie e le grandezze di questo momento storico.

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photo by Heidi Nakashima / Historical Society of New York