Di cosa hai paura? Non lo so, papà.
Mia figlia grande è della seconda metà degli anni Novanta e appartiene alla Generazione Z, i nati tra il 1996 e il 2010. Che cosa li accomuna? Una paura. Non tanto per la mancanza di lavoro o la concorrenza globale (angosce dei Millennial): a spaventarli, spesso è la vita in sé, i normali saliscendi delle giornate; una diagnosi al volo direbbe che sono malati di vita, dolcezze incluse. Così vulnerabili, come reagiranno dopo mesi di un’ansia pandemica che ha confermato i loro timori, il guardare con apprensione al mondo fuori?

A lockdown finito, sono seduto con lei su una panchina del parco. Se passa uno senza mascherina, lei lo incenerisce. Accennare al ritorno alla normalità è pericoloso, ma è un modo per entrare nelle sue paure. Ci provavo quand’era piccola. Le chiedevo di scrivere un elenco delle più ridicole e di cui non osava parlare; finché non le sembravano assurde e scomparivano. Mentre ci fissiamo sopra la mascherina chirurgica riassumo le volte in cui è stata coraggiosa e non ha badato ai rischi.

Per due anni hai studiato all’estero, sbrigandotela da sola, anche quando sentivi i topi sul tetto. Hai perfino pensato di sposare un ragazzino californiano e andare ad abitare con lui. Obbedivi ai sentimenti, senza riflettere sulle conseguenze.
Fa la faccia come se parlassi di un’altra persona.

Di cosa hai paura ora? Mentre aspetto una risposta, le ricordo che la sua generazione ha subìto le scosse che hanno tramortito genitori e società, ha vissuto all’ombra di Torri Gemelle, catastrofe economica del 2008 e oggi della tempesta perfetta, la crisi esistenziale del Covid-19. Annuisce.
Insisto con la ragione. Sei giovane, in forma e prendi ogni precauzione: è più facile farti male in macchina con me che contagiarti.
Dice sì, ma non sta parlando con il cuore.
Potrebbe essere conseguenza della separazione. La mia assenza ti ha sottratto le sicurezze di cui avevi bisogno? Ora parlerebbe con il cuore, ma non dice niente. Le ripeto una battuta a effetto, vivere è un rischio. Mi pento.

Tornato a casa, leggo il commento di un suo coetaneo pubblicato da The Guardian. La pandemia gli ha fatto capire che lui e i suoi amici erano diventati pessimisti e disillusi su tutto, ma anche che, nel pieno della crisi, ha ritrovato la necessità di coltivare la speranza, scoprendo di averne una bella scorta. Le mando l’articolo. Risponde ammettendo che la sua generazione prova un sentimento di disillusione e cinismo generico. E che «è più facile condannare ogni cosa, piuttosto che riconoscere gli aspetti apprezzabili. Ciò che scrive sulla speranza è bello, ma come fa a dire che adesso sa che non gli mancherà? Sembra una chiusa favolistica».

disegno di lucia neripinterest
© Lucia Neri

Autoritratto delle figlia durante la pandemia.

È vero che in guerra ci si accorge delle proprie risorse, dopo però ci vuole una traccia, un progetto da seguire. Non ha tutti i torti. Ci ritroviamo sulla stessa panchina. Sento di avere al mio fianco la bellissima bambina che nascondeva le paure, salvo riderne a posteriori. Scherzare: forse è la chiave. Le dico che, con la pandemia, finirà almeno il FOMO Fear Of Missing Out l’ansia di perdersi qualcosa di bello, tipica nevrosi da social media.
Qual è l’ansia del presente, la vostra?
Ci pensa, borbotta, poi esclama: FONFE!
FONFE? Fear Of Not Fearing Enough! Paura di non aver abbastanza paura? Esatto!
C’incamminiamo in mezzo ai runners e a chi discute al telefono, la mascherina calata: l’atmosfera è più lieve, il ghiaccio sottile della paura sembra incrinato. Parlare è un inizio, riderne accelera la guarigione.