Una mattina a Guilìn, proprio in Cina, dove il battito d’ali di un pipistrello avrebbe scatenato per il mondo intero quest’uragano, con buona pace della famigerata farfalla e di tutti noi, camminavo per un parco che si sdraia sulle rive del fiume Li, e ho incontrato una danza segreta.
Una cinquantina di persone che, prima di entrare ognuna nel suo negozio, nel suo ufficio e nella sua giornata, si ritrovavano lì.
E lentissimamente muovevano un braccio, poi un altro. Poi una gamba.
Facevano tai-chi.
L’ho già detto: ho la cultura dell’autostoppista. Respiro, sento, guardo tutto quello che posso. Ma poi approfondisco solo quello da cui misteriosamente mi sento chiamare per nome, come se potesse rivelare qualcosa che consenta proprio a me di fare pace con l’esistenza. E lì per lì non potevo prevedere che quella danza sarebbe tornata con tanta prepotenza a rivendicare le mie fantasie.

Mi era bastato sapere che i suoi movimenti, nati sotto la dinastia Yuan come tecniche feroci di combattimento, si erano sciolti nei secoli per diventare forme raffinate di meditazione, di ginnastica e addirittura di medicina.
Ma poi, mentre osservavo quelle persone tendersi e piegarsi in un silenzio così puro da sembrare una musica che solo loro erano in grado di sentire, era spuntato dal nulla un branco di piccole scimmie. E la mia attenzione era corsa via con loro e dietro a chissà quale libera associazione.
Da stamattina, però, continuo a tornare a quel silenzio, a quei movimenti.
Pensieri di chi ha l’indicibile fortuna di avere il tempo e lo spazio per farli, dei pensieri, su quello che sta succedendo: certo.
Pensieri di una persona comunque graziata dalla maledizione del coronavirus, perché finora non mi sono ammalata, perché nemmeno mia figlia, i miei
genitori e le mie dieci persone preferite si sono ammalate, perché ho una casa dove rifugiarmi, perché ho perso dei soldi e delle certezze, come tutti, ma a differenza di molti ho un lavoro su cui non ho mai smesso di potere fare affidamento.

Pensieri che non potrebbero certo consolare nessuno che oggi sta davvero male.
Pensieri che però, chissà: forse domani potrebbero aiutarci a stare meglio, se oggi siamo stati di fatto risparmiati e stiamo tutto sommato bene.
Perché sta diventando questa la mia ossessione, negli ultimi giorni. Dopo avere sentito Daniela, Ludovica, Pierantonio...
Questa: la possibilità, come nel tai-chi, di trasformare un combattimento in una danza che cura, di sublimare la guerra in armonia.

Spiritualizzare le restrizioni a cui siamo stati costretti senza renderle completamente metaforiche, interiorizzare questo nuovo campo di azioni per godere del Là Fuori, e però dal Là Fuori proteggerci, per non finire di nuovo nel frullatore pazzo e di nuovo non avere altra scelta che quella di rintanarci nel Dentro di Testa.
E quindi? Da dove cominciare?
Dal valore che ha la barriera di un metro, sia quando si infrange che quando si rispetta.
Dalla possibilità di una mascherina che siamo noi a decidere di infilare, se avvertiamo che l’aria si fa tossica.
Dalla differenza fra il miracolo di incontrarsi e il rischio di assembrarsi.
Dalla coscienza che tutto quello che respiriamo Là Fuori, ma proprio tutto, inevitabilmente poi entra con noi, nelle nostre case, anche se ci convinciamo di avere perfettamente sotto controllo i confini.
Dall’umiltà di rimetterci a quei confini che più siamo certi di riuscire a dominare, più ci dominano e si vendicano della nostra presunzione.

Vedo la possibilità, come nel tai-chi, di trasformare un combattimento in una danza che cura.

Dal dovere, allora, e che però è anche un diritto, di lavarci le mani, quando attraversiamo un confine, ma senza pensare ad altro che a quello che stiamo facendo: applicare una quantità sufficiente per coprire la loro intera superficie, frizionare le mani palmo contro palmo, il palmo destro sopra il dorso sinistro intrecciando le dita tra loro e viceversa, palmo contro palmo intrecciando le dita tra loro, dorso delle dita contro il palmo opposto tenendo le dita strette tra loro, frizione rotazionale del pollice sinistro stretto nel palmo destro e viceversa, frizione rotazionale, in avanti ed indietro con le dita della mano destra strette tra loro nel palmo sinistro e viceversa, risciacquare le mani con l’acqua, asciugare accuratamente con una salvietta monouso, usare la salvietta per chiudere il rubinetto: dedicare all’operazione fra i quaranta e i sessanta secondi, il tempo che dedicheremmo a chiunque per dirgli benvenuto o arrivederci, il tempo che ci vuole, allora, anche per accomiatarci dal Là Fuori o avventurarci nel Qui Dentro, accomiatarci dal Qui Dentro o avventurarci nel Là Fuori, perché quello che è Là Fuori rimanga Là Fuori e quello che è Qui Dentro resti Qui Dentro - e perché non significhi inevitabilmente Dentro di Testa.
Dall’urgenza degli abbracci che oggi ci mancano, dal pericolo degli abbracci che oggi non ci mancano e che anzi, se vengono meno, ci permettono di stringerci più forte a chi davvero siamo: e che allora forse non erano abbracci, erano morse. (...)

cover come il mare in un bicchierepinterest
Courtesy Feltrinelli

Queste pagine sono tratte da Come il mare in un bicchiere (Feltrinelli, € 12) di Chiara Gamberale, in uscita il 25 giugno. Una narrazione intima che ci parla di questo periodo, dello smarrirsi e del ritrovarsi, e che ci porta a riflettere su «un nuovo protocollo di autodifesa psicologica ed emotiva che questa incredibile tragedia ci potrebbe suggerire». L'autrice devolverà il ricavato delle vendite allo spazio di accoglienza per bambini e famiglie di CasaOz in emergenza Covid-19.