La lettura ha una direzione? Me lo chiedo dopo avere letto il breve saggio di Katherine Rundell Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio (Rizzoli). L'autrice inglese di Sophie sui tetti di Parigi e La ragazza dei lupi, due titoli che da tempo mi riprometto di recuperare, scrive: «Tra la maggior parte degli adulti circola l'idea che dovremmo leggere in una sola direzione, perché leggere anche nell'altro senso sarebbe come regredire, ritirarci: tornare indietro». Non avevo mai seriamente riflettuto sul fatto che esistesse una legge invisibile che scandisce cronologicamente che cosa è opportuno leggere da quando impariamo a sillabare fino a quando abbiamo i capelli tutti bianchi e fatichiamo a mettere a fuoco le parole. Eppure c'è: sono pochi gli adulti che si sentirebbero liberi di dichiarare a una cena con gli amici che stanno leggendo con gusto Anna dai capelli rossi o Capitani coraggiosi. La legge più o meno dice così: parti con Rodari e prosegui con Dory Fantasmagorica, Geronimo Stilton, Roald Dahl e i «classici», da Piccole donne all'Isola del tesoro, passando per Narnia e Il sentiero dei nidi di ragno. A questo punto, diciamo verso la fine delle superiori, senti un click. All'ingresso del mondo dei grandi, una valvola si chiude e rifluire all'indietro è, nel migliore dei casi, fortuito, in tutti gli altri ampiamente escluso: davanti a te si srotola una strada che ha come meta, ideale, il Finnegans Wake di Joyce. Eppure tutti noi sappiamo che certe storie lette da piccoli ci hanno tatuato il cuore con un'intensità mai più vista da adulti.

Prendiamo l'estate, tra le stagioni quella istintivamente rivolta al passato e al suo affetto più stabile, la nostalgia. Per me la vera estate, quella col marchio originale, con la quale tutte le altre dovranno per sempre azzardare il confronto (e immancabilmente perderlo), è quella degli 8-12 anni, un pugno di mesi dilatati dal sole e dal sapore delle albicocche che racchiudevano tutto il mistero del mio «anlage», che in biologia è quella parte della cellula, la «sostanza primaria», che definisce ciò che la cellula stessa diventerà. Stretta dentro a quel minuscolo pugno riuscì a farsi spazio una mitica collana di libri che le donne della mia generazione ancora rimpiangono e ricordano come qualcosa carico di promesse: la Gaia Junior. Ne ero follemente innamorata, e Professione? Spia! è tuttora tra i libri che mi hanno formata. Perciò è soltanto negli ultimi anni, leggendo interviste e biografie di scrittrici e non solo (una su tutte, Natalie Portman), che ho scoperto che al di là dell'oceano, in contemporanea con le migliori estati della mia vita a cavallo tra gli anni '80 e i '90, andava in scena un altro fenomeno che dire popolare è riduttivo: Il club delle babysitter. E non sarei qui a scriverne se, recentemente, l'editore Mondadori non avesse deciso di ripubblicarne la serie di libri in occasione dell'uscita dell'omonima serie tv di Netflix. Essendo curiosa, e perennemente spronata dal Sisifo dentro di me a riempire le lacune della mia vita, sono andata a dare un'occhiata. E ho scoperto un mondo.

Il club delle babysitter è una serie di romanzi (quasi 200) scritta da Ann M. Martin e pubblicata dal 1986 al 2000 che ha venduto oltre 180 milioni di libri nel mondo (Harry Potter viaggia sui 500 milioni, ma 180 non sono comunque pochi). L'idea alla base è semplice: nella cittadina fittizia di Stoneybrook, nel Connecticut, un gruppo di ragazzine di 12 anni, dopo la scuola, mette su un servizio di baby-sitting. Per guadagnare qualche soldo, certo, ma anche molto di più. In tempi non sospetti (no Internet, no app), il problema per un genitore era riuscire a contattare nello stesso momento più baby sitter per trovarne poi una disposta a guardargli i figli. La grande idea viene a Kristy: fondare un club, farlo riunire nella stessa stanza a orari fissi e prendere le prenotazioni da un telefono fisso. Una socia smista i turni a seconda della disponibilità delle altre. Una tiene la cassa. Un'altra pensa alla pubblicità. Un espediente narrativo piccolo ma geniale, capace di generare, quasi in automatico, centinaia di storie concentrandosi di volta in volta su una delle protagoniste.

La vera forza di queste storie, però, sta da un'altra parte. Innanzi tutto, nella perfetta, e quindi diversificata, composizione del cast. Kristy, presidentessa e voce narrante del primo volume, è estroversa e una leader nata, quindi, sì, anche un po' prepotente. Ha tre fratelli, due più grandi e il piccolo David Michael, la sua «scuola» di babysitteraggio. La madre è divorziata, ma da qualche tempo frequenta Watson e a lei questo non va giù. Il suo fatal flow è il padre, che non la chiama da un anno e mezzo. Marie Anne è la migliore amica di Kristy: è appassionata di teatro, timida (ha paurissima a parlare in pubblico o con estranei), orfana di madre e ha un padre piuttosto rigido. Claudia, americano-giapponese, è un'artista: ama disegnare e veste in maniera eccentrica, ma come canalizzare questi istinti in una vocazione vera e propria ancora non ha capito come si fa. Stacey, appena arrivata da New York, è la «Posh Spice», sofisticata e con due interessi preponderanti, la matematica e i ragazzi. A loro si aggiunge presto Dawn, un po' mistica e attivista, con una madre hippie il cui ex marito (almeno nella versione televisiva) si è risposato con un uomo. E come di fronte a ogni girl band, scatta subito il meccanismo del «e tu quale sei?» (io, penso, un mix tra Mary Anne e Dawn).

Oggi Anne M. Martin ha 64 anni e vive in un villaggio vicino a Woodstock dove, tra le altre cose, svezza gattini («prendermi cura di loro è la mia versione di baby-sitting», ha detto a Vulture). Femminista, omosessuale (ha fatto coming out non molti anni fa), prima di iniziare a scrivere la serie del Club delle babysitter (nota bene: l'idea non fu sua, ma della editor della casa editrice Scholastic, assieme alla quale poi sviluppò la serie) lavorava come insegnante di sostegno. È stata lei a scrivere i primi 36 volumi, poi le sono stati affiancati dei ghost writer. Dalla serie originale spuntarono anche numerose costole, tra le quali Baby-Sitters Little Sister incentrata sullo splendido personaggio, di Karen, la sorella acquisita di Kristy, una settenne gotica e molto speciale, un misto tra Sabrina Spellman e Mercoledì degli Addams. In tutto, l'indotto del club conta altri 200 volumi, e il totale fa circa 400 libri, una cifra che dire impressionante non è abbastanza.

Il club delle baby-sitter, sia libri che episodi televisivi, è scritto, creato e prodotto principalmente da donne (tra le producer c'è anche la stessa Martin). Il club stesso è fondamentalmente un esempio di imprenditoria femminile, un'«azienda» fondata da una una ragazza che incoraggia un gruppo di giovani donne molto diverse tra loro ad andare nel mondo, a chiedere di venire pagate per il proprio lavoro e a non avere paura dei cambiamenti. Ma gli argomenti che tratta - amicizie, gelosie, invidie, mestruazioni, genitori, famiglia, scuola, autorità – riguardano tutti, non solo le femmine. Per questo non mi ha più di tanto stupito scoprire l'esistenza di un podcast creato e condotto da due uomini, Tanner Greenring e Jack Shepherd, che hanno deciso di leggersi, da grandi, la serie e se ne sono talmente appassionati di farci su un programma diventato un piccolo cult. Il podcast lo hanno intitolato Il club del Clu delle baby-sitter e, Greenring, che nel frattempo ha avuto un figlio, ha detto che quei libri lo hanno aiutato a diventare un genitore migliore.

La serie tv, prodotta da Netflix e appena sbarcata sulla piattaforma, è un abile mix di vecchio e nuovo. Ambientata nel presente, conserva infatti qualche aspetto rétro, e non solo in omaggio ai libri. Claudia, ad esempio - è sua la cameretta che fa da sede al club -, invece di usare lo smartphone decide di acquistare su Etsy un telefono fisso che si illumina quando riceve una chiamata, un oggetto che la me delle medie, abituata a combattere con genitori e sorella per farsi passare le telefonate, avrebbe adorato. E per i nostalgici degli anni '90, nei panni della madre di Kristy troviamo Alicia Silverstone, oggi 43enne, che in molti ricordiamo di una bellezza quasi impossibile (assieme a Liv Tyler, altrettanto stupenda) nei video degli Aerosmith e in teen movie come Ragazze a Beverly Hills. Sono diversi i punti, però, in cui le vicende della trama sono state attualizzate e adattate ai tempi presenti. Le sceneggiatrici hanno incluso alcune protagoniste di colore (Mary Anne e Dawn) e chiaramente per Claudia è stata scelta un'attrice di origini asiatiche. Anche il tema dell'omosessualità è evocato: in una scena, Claudia videochiama il padre che le risponde assieme al nuovo compagno.

Il club è, di per sé stesso, un rito di iniziazione. Entrarvi segna il passaggio dallo status di bambina a quello di adulta, uno dei più delicati stargate nella vita di una donna. Per più di una generazione, questa serie è stata l'unica fonte d'informazione su quello che significava passare attraverso il divorzio dei propri genitori (trovandosi spesso in famiglie non tradizionali), la morte di una nonna, i primi innamoramenti, la malattia, il trasferimento in un altra città, il confronto con il bullismo, la ricerca del proprio posto nel mondo, e non possiamo sapere se Martin avesse ben chiara fin dall'inizio la portata di responsabilità della propria scrittura. Uno degli elementi più interessanti da analizzare è, però, la scelta di fare coincidere questo passaggio con l'ingresso nel mondo del lavoro. Soprassedendo alla verosimiglianza del fatto che dei genitori si sentissero sereni ad affidare i propri figli a ragazzine delle medie (ma siamo sempre in un'opera di finzione rivolta prevalentemente a un pubblico di pre adolescenti), l'elemento del lavoro assume in questo contesto due valenze: se da una parte, come per prima disse Virginia Woolf, è proprio il lavoro, e pertanto l'accesso a mezzi economici propri, a emancipare la donna, dall'altra ancora una volta la figura professionale prescelta fa parte della sfera dei «caregiver», ruolo sociale tuttora ampiamente attribuito alle donne e per cui spesso non è nemmeno prevista una retribuzione. Vista l'attenzione verso queste tematiche da parte di produzione e writing room, attendiamo speranzosi l'ingresso nel club di baby-sitter maschi, magari proprio nella seconda stagione.

Il club delle babysitter insegna l'inclusività, parola di recente conio (ha poco più di vent'anni) che diventa sempre più gonfia e decisiva man mano che ci inoltriamo in questo millennio. Gli episodi ci mostrano che qualunque tipo di persona può entrare a fare parte del nostro universo, non importa come appaia fisicamente o caratterialmente. E non solo perché quello che conta - e questo è un tratto comune a molte storie «per ragazzi» che sono ormai le uniche che ci fanno sperare in un mondo migliore - è come si è fatti dentro, ma anche perché questo universo non ha i posti limitati e, potenzialmente, si può espandere all'infinito. All'inizio, il club è composto da quattro persone, alla fine della prima stagione siamo già a 8, e io mi aspetto ulteriori dilatazioni e inclusioni. Di sicuro assisteremo anche a tradimenti o defezioni, ma anche questo fa parte della natura di un universo aperto dove le persone si sentano libere di arrivare e andarsene, per poi magari ritornare. Il club delle baby sitter insegna, anche, la sorellanza. Nel nono episodio del reboot, ambientato al campo estivo (uno dei topos più intriganti dei format americani), Dawn indice uno sciopero in difesa del diritto di ogni bambino di poter accedere alle attività creative indipendentemente dalle proprie possibilità economiche, mettendo così in pericolo lo spettacolo teatrale preparato con tanta dedizione da Mary Anne. Tra le due «colleghe» di club, però, non avviene una frattura e, in pratica, si dicono «tu continua lo sciopero, lo capisco e lo rispetto» e «tu vai avanti con il tuo spettacolo, per te è importante e ti capisco». Questa cosa si chiama solidarietà ed essere alleate. Sorellanza è esattamente questo: io sono con te, anche se non sono pienamente d'accordo con te, perché ti rispetto e ti supporto. Alla base c'è il riconoscimento di appartenere a una stessa radice, che è un po' la formula base dell'umanità: io = (ma allo stesso tempo «diverso da») te.

In questi ultimi giorni, in cui penso di essermi guadagnata una tessera onoraria del Club delle baby-sitter, il mio mondo è diventato un pochettino più grande di prima. Credo anche di avere trovato la mia personale regola sulla direzione che deve avere la lettura - ma vale per qualsiasi prodotto culturale: io rivendico tutte le direzioni, il circolo al posto della retta, la libertà di andare avanti e tornare indietro e, nel mentre, toccare tutti punti. Proprio perché il gesto della lettura è l'unico che ci permette di essere contemporaneamente in due posti, dentro e fuori di noi, mi chiedo se in un momento storico dove è più evidente il tentativo di rompere certi automatismi e sovrastrutture in molteplici aspetti della società e dell'esistenza personale, non sia anche arrivato il momento di concederci, noi lettori, la possibilità di leggere sfacciatamente quello che ci va, pescare dal cesto stracolmo di leccornie quella che è più colorata e sberluccicante anche se ci racconta di ragazzine o ragazzini che pensiamo di non essere più. E senza temere il giudizio di nessuno, prima di tutto quello di noi stessi.