Arthur ha occhi grandi che catturano il mondo e lo proiettano di nuovo. Attraverso quello sguardo, tutto si capovolge: il piccolo diventa enorme, le differenze un gioco, l’abitudine una scoperta. L’Africa non sembra poi così diversa, verrebbe da pensare, se solo si potesse passare per un attimo in quelle iridi azzurre. Arthur ha un anno e la sue presenza in Etiopia è il miglior passaporto per Caroline Ciavaldini e James Pearson, climber del team The North Face che qui l’autunno scorso hanno conquistato le torri del Tigray. E lo hanno fatto insieme ad Arthur, loro figlio.

"L’idea dell’Africa è arrivata parlando con un amico cameraman appassionato di Etiopia. Ci parlò di questo Paese, ma un po’ così, senza darci troppo peso", racconta Caroline, climber francese con un palmarès di tutto rispetto nel mondo dell’arrampicata indoor. "A un certo punto è come se fosse scoccata una scintilla: sia io che mio marito James volevamo vedere l’Africa perché, nonostante io sia cresciuta sull’Isola della Réunion, non avevamo mai fatto delle spedizioni nel Continente se non in Sud Africa. Ma l’Etiopia è un’altra cosa e quando questo nostro amico ci ha parlato di chiese ortodosse scavate nella roccia, ci ha talmente affascinato che sapevamo di doverci andare. Sarebbe stato un viaggio alla scoperta di questi luoghi di culto così incredibili frequentati già a partire dal IV° secolo. Quando abbiamo proposto la spedizione Arthur aveva solo due mesi, eppure ci sembrava che sarebbe stato perfetto viaggiare con lui e i nonni. Un viaggio diverso, di famiglia, intimo. Non potevamo immaginare quanto sarebbe stato anche profondo".

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Il principio

Era il 2010 quando una francese, Caroline, e un inglese James si incontrarono. Due destini che sulla carta difficilmente si sarebbero incrociati: lei veniva dal mondo dell’arrampicata indoor e delle gare, lui solo outdoor, tra falesie, vie e alpinismo di scoperta. Stesso sport e passione, ma praticato in un modo diverso e parallelo, un po’ come paragonare il Super G al Freeride. I due si trovavano in Turchia, lei in vacanza, lui per completare una via e un amico in comune pensò di farli incontrare proprio lì, a cavallo tra Occidente e Oriente. "Una volta rientrati dal nostro viaggio abbiamo scoperto Skype e da lì non ci siamo mai più lasciati", dice Caroline. "In quel periodo della mia vita facevo tantissime competizioni, ma stavo per arrivare verso la fine della mia carriera sportiva. Lui invece era in una sorta di impasse perché era arrivato al punto in cui era alla ricerca di un rischio sempre più alto. Incontrandoci ci siamo completati: lui mi ha insegnato la gestione del rischio, io la costanza dell’allenamento e la gestione del proprio corpo. Ci siamo lanciati in avventure sempre un po’ particolari, ma comunque insieme. Da giovani facevamo viaggi mirati solo all’arrampicata, ora invece arrampicare è diventato il nostro pretesto per visitare un Paese con un punto di vista diverso e inabituale". Così i due cominciano a girare il mondo alla ricerca di luoghi magici, cercando prese e vie, tracciati e percorsi, ma come coppia, in un duo affiatato ed entusiasta. Attraverso la passione si sono conosciuti, attraverso questa si sono modellati l’uno sull’altro e a causa di questa Caroline + James sono diventati oggi Caroline + James + Arthur.

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Il viaggio

"Diventare genitori però forse è stata una delle più grandi, difficili e incredibili avventure in cui ci siamo imbattuti", continua la climber transalpina. "Nella gravidanza vedo una sorta di parallelismo con l’arrampicata: ci si siamo lanciati in un qualcosa che ci faceva sognare ma al contempo era completamente sconosciuto. Una vetta da raggiungere senza sapere quale sarebbe stata la vista da lassù. Per non parlare del 'viaggio': i primi mesi della mia gravidanza li ho passati in un modo atipico, ovvero continuando a scalare. Nonostante mi sentissi una balena, avevo bisogno di muovermi, non potevo sopportare di stare seduta sul divano o sdraiata a letto. Arthur stesso sembrava non stare bene quando mi fermavo, si agitava, tirava calci. Quando ero in parete invece lo sentivo felice, quieto, sereno". Al quinto mese di gravidanza i due partono per un’avventura in Giappone, per scalare le cascate, o fare “Sawanobori” come è altrimenti noto, ovvero un sottogruppo dell’arrampicata di per sé molto vario il tutto per rendere problematiche anche le salite più facili. Un’idea di James nata dalla curiosità di mettere insieme l’elemento della roccia e quello dell’acqua per mettersi alla prova. "Io mi sentivo pesante nella fase di avvicinamento, ma quando mi ritrovavo con la mie mani sulla roccia mi sentivo bene. Era la sola cosa che mi facesse stare bene. Volevo far vivere a mio figlio quelle esperienze ancora prima che nascesse". La meta del viaggio era Shomyo, la cascata più alta del Giappone, che misura 350 metri. "Sembra incredibile quello che puoi sentire nella pancia, è come se si creasse una connessione, è come se in fondo quando viene al mondo, tuo figlio lo conosci già perché avete condiviso insieme delle passioni", racconta.

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Finalmente, l’Africa

"Arthur per avere un anno e mezzo ha già viaggiato tantissimo! Quello in Etiopia, in fondo, è stato il suo secondo viaggio, il primo è stato in Giappone, anche se non penso se lo ricorderà", scherza. Il viaggio in Africa si era dato l’obiettivo di trovare la 'torre perfetta' e questa ricerca ha condotto James e Caroline all’Excalibur nel Gheralta Range. Le difficoltà sono apparse evidenti sin da subito: un contesto estremamente sabbioso e le rocce friabili hanno rallentato il ritmo degli atleti che hanno dovuto dedicare la prima giornata a tracciare e studiare accuratamente la via. Il giorno seguente, James e Caroline sono tornati alla torre per completare la scalata e conquistare così la vetta. "Queste chiese scavate nella roccia sono qualcosa di incredibile, assecondano la forma della roccia, una visione della religione in totale armonia con la natura. Per accedere a queste chiese bisogna salire sulle falesie e ovviamente non è minimamente paragonabile all’ingresso in una chiesa europea come Notre Dame. Ci sono delle prese sulla roccia che sono diventate lucide a causa del passaggio dei fedeli. Non sono Cristiana, ma credo alla Natura e alla sua potenza. E questo mio pensiero lo vedo in linea con le chiese ortodosse che abbiamo trovato qui. Se penso a tutto la pena che si sono dati per arrivare così in alto posso solo pensare che a spingerli sia stata la consapevolezza che qualcosa di speciale può succedere in cima". La religione ortodosso dell’Etiopia è diversa da quella Europea. Portata da missionari del vecchio continente, nel tempo si è trasformata in un qualcosa di unico. Diversi nella lingua, nel credo, nel colore della pelle, nella cultura, Caroline e James dai capelli biondi e gli occhi chiari sarebbero stati dei perfetti estranei visti da fuori. Ma viaggiare con Arthur ha fatto succedere qualcosa di inaspettato. "Ci sono tantissimi bambini in Etiopia, penso che la media sia di quattro figli per famiglia. C’erano bambini ovunque, e Arthur è diventato subito un punto di connessione. Vedeva altri bambini e voleva andare a conoscerli e così succedeva anche al contrario. Arthur è stato il miglior passaporto per viaggiare in quella terra e tra quelle persone. Passava dalle braccia di tutti, giocava con gli altri bambini e le persone del posto, invece di vederci come stranieri, ci vedevano come genitori e questo ci ha permesso di abbattere dei muri fin da subito". Spesso si pensa all’Africa come un viaggio pericoloso per bambini così piccoli. "Noi siamo arrivati in questo straordinario Paese con il nostro bene più prezioso: nostro figlio, e già fare questo passo è stato un modo per far capire loro che c’era confidenza e fiducia", racconta Caroline. "Ma ha cambiato anche il nostro modo di vedere il mondo: io ho cominciato ad accorgermi di qualcosa che prima non vedevo, Arthur ha una grande curiosità per tutte le cose. 'Guarda, ci sono delle galline!'. Le galline ci sono anche da noi, ma vederle lì in Africa ed accorgersene cambia tutto. Ogni minuto di viaggio è più intenso perché fai delle scoperte attraverso lui".

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Il futuro

Dal rientro dall’Etiopia sono passate tre stagioni, un’emergenza sanitaria che ha cambiato tutte le abitudini del mondo e un periodo di lockdown che ha fermato anche la Francia, dove i tre vivono. "Il nostro primo viaggio post lockdown è stato un mix di bici e arrampicata con Arthur nel sua piccola cariola. Siamo partiti per le Alpi e abbiamo fatto un tour con uno stop su tutte le falesie. Arthur ha amato viaggiare così e abbiamo scoperto che intorno a noi ci sono posti incredibili e si possono vivere grandi avventure senza bisogno di andare dall’altra parte del mondo. Non ci eravamo mai presi il tempo di guardarci davvero intorno. Il primo giorno in cui siamo partiti, dopo un’ora, abbiamo incontrato una tartaruga ed è stato bellissimo". Ma nel futuro dei tre ci ancora tanti viaggi e scoperte, anche se ora la frenesia della ricerca ha lasciato spazio a un altro ritmo, ma di altrettanta scoperta. Un incedere più lento fatto di piccole cose dove il protagonista è il ritorno alla meraviglia.

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