Francesca Scorsese non ha mai visto The Departed. Il che è strano per due ragioni. La prima è che Francesca era in The Departed: aveva sei anni, era la bambina che saltellava allegra e ignara per l’aeroporto mentre DiCaprio aveva una crisi isterica perché stavano per scoprire il suo doppiogiochismo. La seconda è che The Departed è diretto dal suo papà, che si chiama Martin ed è un regista di cui forse avete sentito parlare, nonché la ragione per cui i suoi aneddoti d’infanzia sono roba così: «Non me lo ricordo perché ero troppo piccola, ma papà mi racconta che quando Elia Kazan era a casa nostra io gli appoggiavo addosso tutti i miei orsacchiotti, alla fine della riunione era ricoperto di pelouche».

Quando le dico che The Departed è un film in cui sono tutti dei mostri di cattiveria e slealtà e mi fa paurissima, nello schermo di Zoom Francesca sgrana gli occhioni, dice: «Davvero?»; poi, prima di dire che non l’ha visto, premette: «Non si arrabbi», facendomi pensare che quello Scorsese, tra i molti talenti, ha evidentemente quello di saper crescere ragazzine davvero garbate. Papà era, quando lei era piccola, «molto specifico su quali dei suoi film potessi vedere e quali no», e quello era un no fino alla maggiore età, «ora sono maggiorenne da un po’, non saprei spiegare perché non l’ho ancora visto».

Ha vent’anni. Li ha compiuti con una festa doppia (o a metà): si festeggiava il suo compleanno ma anche la fine delle riprese di We Are Who We Are, serie di Luca Guadagnino ambientata in una base militare americana in Veneto, su Sky dal 9 ottobre. I protagonisti sono gli adolescenti figli degli ufficiali, Francesca è Britney, che coinvolge nel gruppo l’appena arrivato (e disadattatissimo) figlio della nuova comandante della base, Fraser. Sfacciata e volitiva, Britney è cresciuta in giro per basi militari nel mondo, non ha mai visto New York, chiede a Fraser come sia. Francesca, che ci è cresciuta, dice che a quella domanda risponderebbe «incasinata, bella, casa», e che la città che più gliela ricorda è Milano, «indaffarata ma con una vibrazione europea» (ha passato a Milano l’estate dei suoi diciott’anni). Se andate sul suo Instagram, non ci trovate la tipica ventenne. Dice che è perché «sono la figlia più piccola di mio padre, e l’unica figlia della mamma, e la mamma ha il Parkinson, e questo mi ha fatta crescere più in fretta di quanto avrei dovuto, mi ha reso protettiva nei loro confronti, forse più affettuosa del normale». E quindi, invece di avere verso i genitori quell’ostilità insofferente che ricordavo come tipica dei vent’anni, sul suo Instagram c’è lei che gioca con le app di doppiaggio facendo fare a papà il playback dei dialoghi di Breaking Bad, o monta un cortometraggio sulla malattia della mamma.

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Luca Guadagnino

Francesca Scorsese è la figlia minore di Martin Scorsese e della sua attuale moglie, la produttrice Helen Morris. Nata nel ’99, l’abbiamo vista bambina nei film The Aviator, The Departed e Hugo Cabret, tutti diretti dal padre, e ragazza diciassettenne in Almost Paris,
diretto da Domenica Cameron-Scorsese (figlia di Martin e della seconda moglie, l’artista Julia Cameron). Adesso sarà in We Are Who We Are, la prima serie tv di Luca Guadagnino, in onda dal 9 ottobre su Sky.

Ma forse sono io che sono diventata mia nonna, e penso ai giovani d’oggi come cliché, e trasecolo quando in We Are Who We Are ascoltano i Rolling Stones e leggono Burroughs o Ocean Vuong. «Sono un po’ particolari, in effetti è raro che gli adolescenti ascoltino i Rolling Stones, anche se io ho persino la loro maglietta» - si solleva dalla sedia e la telecamera di Zoom inquadra la boccaccia degli Stones sulla maglietta che indossa: se volete dei figli con ottimi gusti musicali, fateli crescere da Martin Scorsese (regista, oltre che di tutto il resto, d’un documentario sugli Stones, Shine a Light).

Il suo racconto di come ha avuto la parte sembra una scena diretta da Guadagnino, la responsabile del casting che la trova su Instagram, il primo provino della sua vita, lei nervosissima, un secondo provino, «poi Luca mi ha chiamato su Skype mentre ero a lezione all’università, mi ha detto “voglio che tu sia nella produzione”, pensavo mi offrisse un lavoro da assistente, e mi ha dovuto spiegare, “no, voglio che tu sia Britney”, ero sotto shock, mi sono messa a piangere». Mi preoccupo, mi rassicura: per piangere è uscita dall’aula.

A Britney ha prestato qualche tratto della sua personalità, dice, «ma soprattutto sono dovuta tornare a quando avevo quattordici anni: adesso ne ho venti». Lo dice come se ci fosse un secolo di differenza, e ha ragione: a quell’età sei anni sono un secolo, e io mi sento una vegliarda, avendo un’età alla quale sei anni non fanno alcuna differenza. «A quattordici anni cominciavo appena a venir fuori dal mio guscio, ero quella silenziosa, ero timidissima».
Sempre sentendomi sua nonna, le chiedo di questa generazione sempre pronta a finire in una foto o in un video, cresciuta in un’epoca in cui ogni telefono ha un obiettivo fotografico.
Nella sua prima scena, Britney è in classe, e Fraser le scatta una foto di soppiatto. «È un po’ da maniaco, come lo fa lui, ma per me è normale fotografare le cose che mi accadono, mi dimentico tutto, e mi fa piacere poi poter andare a rivedere e ricordarmi di quant’ero felice».
Parliamo delle polemiche possibili, è un film in cui tutti i ragazzini bevono alcolici, cosa che in America è vietatissima e considerata assai grave. Le chiedo se il fatto che qualunque dettaglio di qualunque opera ormai sia pretesto di polemica la renda più accorta, se ci sia un elemento di autocensura negli artisti più giovani. «Oh sì: non solo penso “se dico questo o scrivo questo verrò attaccata”, ma anche “si rifletterà negativamente su mio padre”». Padre per il quale sembra però la miglior risolutrice di polemiche. L’anno scorso Martin Scorsese disse che i fumettoni della Marvel per lui non erano vero cinema. Apriti cielo. Tutti i fan dei supereroi si offesero, come osa criticare i nostri film preferiti, la lagna sembrava non finire più, ma per fortuna era quasi inverno, e arrivò il colpo di genio di Francesca. Che mise su Instagram le foto dei regali che aveva preparato per papà, incartati con carta Marvel. «Abbiamo un rapporto allegro, era un po’ che lo prendevo in giro, forse per Natale dovrei regalarti qualcosa della Marvel, alla fine ho comprato dieci rotoli di carta Marvel, si è divertito molto».

un ritratto di francesca scorsese nei panni di britney una delle protagoniste di we are who we arepinterest
Collier Schorr

Francesca Scorsese nei panni di Britney, una delle protagoniste di We Are Who We Are. La serie, in 8 puntate, racconta le vicende di un gruppo di adolescenti in una base militare americana in Veneto.

We Are Who We Are è ambientato nel 2016, ci sono i dibattiti elettorali negli schermi televisivi, c’è un soldato che ordina per sé e per la figlia i cappellini rossi con la scritta Make America Great Again, lo slogan con cui Trump vinse quelle elezioni. Francesca allora era troppo piccola per votare, ma «andavo in un liceo molto di sinistra, e la mattina dopo in classe sembrava fosse morto qualcuno, erano tutti in lutto, c’erano ragazzi che piangevano in corridoio, un silenzio da funerale interrotto solo dai singhiozzi. Sono contentissima di votare quest’anno». Ammesso che quest’anno le elezioni si tengano. «Che paura».
«Ci sarà sempre chi dirà che è nepotismo, che ho accesso a certe opportunità solo per il mio cognome. Ma sono fiera del mio cognome, è pieno di storia, non ci rinuncerei. Anche se cerco di farmi strada con le mie forze». Mi viene in mente che, come il matrimonio nell’Età dell’innocenza, il cognome famoso «assicura una posizione sociale, ma non necessariamente il rispetto», ma non glielo dico per non citarle per la duecentesima volta il papà. Che però a volte vedo scritto dagli americani, non ferratissimi in ortografia, “Scorcese”: come va con “Francesca”, riescono a scriverlo giusto? «Di solito lo scrivono Franchesca. Una volta un tizio mi ha chiamato per un anno Franjessica. Credevo avesse una pronuncia strana, poi gliel’ho visto scrivere: Franjessica». E a un certo punto si è accorta di pronunciare lei stessa sbagliato “Scorsese”, con la “e” finale letta come “i”, all’americana; «una volta mio padre me l’ha sentito dire, “No! ScorsesE!”, gli è praticamente preso un colpo, può immaginare».

Sentendomi sempre più sua nonna, le chiedo cosa voglia fare da grande: ha recitato, ha lavorato in produzione, dipinge, suona il piano, ha ambizioni registiche. Mica può fare tutto, le dico. «Lo so che non si può fare tutto, ma a me piace credere che io potrò». Se volete delle figlie senza insicurezze, mandatele a crescere a casa Scorsese.