E questa, finalmente, è una storia felice. È la storia di Sara che un sabato mattina si sveglia e che, mentre sta bevendo il caffè, si vede scivolare dalle mani la sua tazza preferita, quella rossa e con il manico arancione. Negli anni era sopravvissuta a tutto, quella tazza, e negli ultimi sette, impossibili mesi, era stata a guardare impaurita dall’angolino della sua credenza i piatti e i bicchieri che avevano preso a volare per la cucina, perché succede sempre così quando una storia finisce, quello che si era magicamente rotto (un imbarazzo, una certezza, il nostro modo di dire io e dire tu) torna a ricompattarsi, quello che pareva indissolubile invece si rompe (i piatti che avevamo comprato insieme a quel mercatino di Copenaghen, i bicchieri che ci avevano regalato gli amici quando li avevamo invitati per la prima volta a cena in quella che era appena diventata casa nostra, la fiducia: l’amore). Allora la tazza si era trasferita con Sara in quel monolocale dove Sara solo da pochi giorni ha cominciato ad aprire i suoi scatoloni, perché tutto quello che c’è lì dentro le ricorda giorni che adesso avrebbe bisogno di dimenticare per andare avanti, anche se non lo sa nemmeno lei verso dove, e allora appena suona la sveglia sogna che arrivi il momento di tornare a letto, ma quando il momento arriva non riesce mai, mai ad addormentarsi.

Per fortuna però esistono persone luminose come Mara, e per fortuna ogni tanto sono amiche nostre. Quella sera nemmeno ascolta le resistenze di Sara, le dice fatti una doccia, vestiti e vieni in osteria, ti aspetto. Sara non si fa una doccia, non si cambia la tuta in cui affoga dalla sera prima, ma va. E ad aspettarla non trova solo Mara: con lei ci sono il fidanzato e due amici del fidanzato venuti a Trieste per il fine settimana.
«Andrea, piacere». Le allunga la mano uno di loro. E poi Sara non sa più niente, sa solo che la mattina dopo, quando si svegliano nel monolocale, fra gli scatoloni mezzi aperti, si dicono aiuto. Qualcosa di tanto forte non mi era successo mai.
«Ma tu chi sei?»
«Sono Sara, almeno credo. Perché da sette mesi non mi riconosco e da ieri non ho nemmeno più la mia tazza preferita per ricordarmi chi sono. E tu?»
«Sono Andrea e lavoro a Madrid. Fra due mesi mi sposo. Ma adesso anche io non so più niente».

Passano tutta la domenica insieme, un po’ a letto e un po’ tirando fuori dagli scatoloni tutto quello che ancora rimaneva lì. Andrea la aiuta a sistemare i vestiti nell’armadio, appende uno specchio alla parete del bagno. È lì davanti che la bacia, prima di partire. E poi guardandola negli occhi attraverso quello specchio le chiede: aspettami. Dammi almeno un mese.
Sara lo fa: lo aspetta. Si convince che tutto è stato un sogno, un meraviglioso sogno di cui aveva bisogno per aprire, finalmente, quegli scatoloni e per chiudere con la Sara di quell’ultimo anno. E invece Andrea, dopo ventinove giorni, torna. Dice non ci si può sposare solo per salvare un amore finito. Dice infatti non mi sposerò. Dice mi hai ricordato che cosa posso ancora sentire, chi posso ancora essere. Dice non lo so che cosa succederà fra noi due: ma intanto il prossimo weekend vieni a Madrid e mi aiuti a cercare due tazze per il monolocale dove mi sono trasferito?

La vostra vita diventa un racconto scritto da Chiara Gamberale mandate le vostre storie a Chiara: mcsentimentalisti@hearst.it