OLTRE UN SECOLO, 100 ANNI. È quanto ci vorrà per raggiungere una reale “parità di genere dirigenziale”, cioè per trovare ai vertici di aziende e organizzazioni italiane donne e uomini in simil misura. Lo ha stabilito l’ultima ricerca dall’osservatorio 4.Manager intitolata, forse anche provocatoriamente, Donne al timone per la ripresa del Paese. Oggi, infatti, solo il 18% dei dirigente è di sesso femminile e la percentuale cresce poco più dello 0,3% all’anno. Scenario poco incoraggiante, ma c’è un rovescio della medaglia: le donne al potere contano. E fanno la differenza. Lo dicono anche i dati del rapporto sull’imprenditorialità femminile di Unioncamere: negli ultimi 5 anni le imprese guidate da donne (il 22%) sono cresciute del 2,9% rispetto allo 0,3 % di quelle a direzione maschile. E le posizioni senior executive, secondo l’Eige, Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, sono al 15%, poco sotto la media europea del 18%.

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Photographer:lela porta
Claudia Parzani, avvocato partner di Linklaters, riconosciuta tra i 100 leader a livello globale per l’inclusione di genere da HERoes e Yahoo Finance e annoverata più volte tra le Women Role Models, oltre che madre di tre ragazze.

È nelle aziende con una consistente presenza di donne in posizioni apicali che vanno raccolti i successi di un modo femminile di essere leader, che dal gap riesce a trarre vantaggio, riflettendo sui propri limiti e riuscendo a trasformarli in punti di forza. La consapevolezza, in pratica, diventa lo strumento più efficace per intervenire sulla realtà, e cambiarla. Specie in Italia, dove l’abitudine al comando è ancora molto lontana dal poter prendere la mano alle donne che lo detengono. «Entrare nelle stanze del potere non è normale per tutti», spiega Claudia Parzani, avvocato partner di Linklaters, riconosciuta tra i 100 leader a livello globale per l’inclusione di genere da HERoes e Yahoo Finance e annoverata più volte tra le Women Role Models, oltre che madre di tre ragazze. «È come varcare la soglia di un circolo: devi capirne i meccanismi. Che non equivale però a seguire modelli maschili con cui spesso siamo state cresciute e a cui tendiamo ad adattarci».

35% le italiane che si danno un voto maggiore di 7 nelle autovalutazioni, contro il 65% degli uomini

Dunque, è chiaro: a certi livelli muoversi in punta di piedi per non far rumore non paga, anche nel senso letterale del termine. «Nei Paesi anglosassoni o nel Nord Europa le donne sono più “abituate” al potere», spiega Roberto D’Incau, Ceo di Lang&Partners, società di headhunting.

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Roberto D’Incau, Ceo di Lang&Partners, società di headhunting.

«Basti pensare alla politica, a personalità come Thatcher, Merkel o Kamala Harris. Da noi non c’è mai stata una capa di Stato o di governo. E ciò perché le italiane, anche quando raggiungono posizioni di rilievo, tendono a imporsi limiti e ad assecondare i pregiudizi. Lo vediamo persino nei questionari di autovalutazione della nostra azienda: quelle che si “votano” dal 7 in su sono solo il 35%, gli uomini il 65%».

La responsabilità è anche nostra, come ribadisce Giada Maldotti, ingegnere con un passato da manager alla Ericsson a Stoccolma, oggi Ceo di RedPublic, la prima società italiana di consulenza al 100% femminile, e mamma single di una bimba.

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Giada Maldotti, ingegnere con un passato da manager alla Ericsson a Stoccolma, oggi Ceo di RedPublic

«Soffriamo della sindrome dell’impostore, ovvero crediamo di non meritare il successo che raggiungiamo, perché ci sentiamo inadeguate. Un esempio? Se otteniamo una promozione, poi non sappiamo negoziare il salario, ma ringraziamo per le responsabilità aggiuntive che ci vengono date». Invece di preoccuparci di portare a casa quanto meritiamo, siamo solo grate che ci siano assegnati compiti più impegnativi. Certo un buon affare, ma solo per il datore di lavoro, che il più delle volte lo sa benissimo, «visto che il nostro complesso di inadeguatezza - aggiunge Maldotti - ci porta pure a essere perfezioniste, quindi a dare il massimo. Oltre al fatto che noi italiane (all’estero no!), seppur oberate dagli impegni professionali, non siamo disposte a fare un passo indietro nella gestione delle responsabilità familiari». Non ci fidiamo, non deleghiamo e superlavoriamo, in pratica, un work-life balance pessimo: «Le italiane apprezzano l’uomo materno solo a parole, nei fatti risulta loro difficile affidare al compagno l’accudimento dei bambini. Eppure, oggi ci sono papà bravissimi», conferma D’Incau.

2,9% la crescita delle imprese guidate da donne rispetto allo 0,3 % di quelle a direzione maschile

«Il clima culturale e politico in Italia, poi, non favorisce certo la carriera delle donne», spiega Paola Profeta, professore di Economia di genere alla Bocconi di Milano e autrice del recente libro: Gender Equality and Public Policy (Bocconi University).
«In Italia lavora una donna su due (per il Censis nel 2020 il tasso di occupazione è del 49,5%, ndr). E se siamo ultimi nella classifica europea, ai vertici la situazione non può che essere più critica. Perché il contesto italiano, soprattutto nelle medie e piccole aziende, tende a essere conservatore». E ad alimentare gli stereotipi. «Ci insegnano sin da piccole a non essere ambiziose, a chiedere meno, a non alzare la mano», sottolinea Parzani. «Bene, trasformiamo questo stile in potere: una leader più modesta lavorerà di più per affermarsi, se è più umile saprà chiedere aiuto, se vuole fare squadra sarà più accudente. Le persone più vulnerabili conoscono i propri limiti e come superarli: siate trasformazionali, concentratevi sui cambiamenti».

I tratti del maschio alfa, tutto sicurezza e narcisismo, meglio dunque dimenticarli. «Un errore è confondere ancora assertività e decisionismo come fattori indispensabili per esercitare al meglio il potere», sottolinea D’Incau. E ciò vale anche nel modo di presentarsi: non è più vero che il tailleur giacca e pantaloni è il modello ideale di una manager per mostrarsi sicura del suo ruolo. La libertà di esprimere la propria fisicità, il proprio carattere, la propria femminilità attraverso gli abiti oggi è limitata solo dai concetti di comodità e identità: più ti senti a tuo agio rappresentando te stessa, più sarà forte il tue messaggio. «Ricordo una riunione alla Ericsson - racconta Maldotti - in cui era presente il board al completo e io dovevo esporre una relazione. Alla fine, il direttore mi fa i complimenti per l’analisi, il mio discorso e… le mie scarpe. Complimento accettato: non l’ho vissuto come sessista o volto a sminuire il mio lavoro, ma come un modo di lodare il mio stile e la mia capacità di impormi così come sono». Come dire: la complementarietà femminile è preziosa, anzi fondamentale. Senza dimenticare che il talento è statisticamente ben distribuito.