“A volte”, sosteneva il grande scrittore Giuseppe Pontiggia, “cielo è meglio di cielo azzurro”. Un invito a economizzare il linguaggio, a evitare il superfluo e il convenzionale. Carlo d’Inghilterra, in un’intervista recente a Farmers Weekly, ha lamentato l’uso di un lessico ambientalista troppo ostico. Parole come “biodiversità”, “agroforestazione”, “capitale naturale” non risultano chiare al contadino o l’allevatore, «bisogna fare le cose diversamente» ha affermato il primo principe green della storia, un fare che inizia dalla potatura dei tecnicismi gergali per arrivare al cuore delle questioni.

Anche Papa Francesco, durante l’Angelus del 31 gennaio, ha citato Mina e le “parole, soltanto parole” degli scribi in contrapposizione a quelle di Gesù che “predica per autorità propria”, una velata invettiva contro il blabla. I media, però, non hanno riportato altri dettagli del discorso del Pontefice, a causa di quello sgambetto cognitivo chiamato “Effetto Von Restorff”, per cui ciò che è dissonante in un insieme omogeneo fa più colpo e si ricorda più facilmente. È il principio di ogni sensazionalismo, lo stesso per cui si finisce a discutere di Rna non solo in televisione, ma anche a colazione, complice un altro auto-inganno, detto di Dunning-Kruger, secondo il quale chi meno conosce un argomento più è convinto di poterne parlare, mentre i socratici che sanno di non sapere ammutoliscono. E che dire della legge di Godwin, essa stessa una provocazione, per cui più una discussione sui social si allunga maggiore è la possibilità che qualcuno paragoni qualcun altro a Hitler, per la gioia degli odiatori a vanvera?

Pregiudizi e distorsioni inquinano sia la percezione sia l’utilizzo del linguaggio, eppure noi comuni mortali, provati dalla pandemia e sopraffatti dagli eccessi di un’informazione contraddittoria, ora vorremmo più chiarezza, parole più affidabili e trasparenti, meno pareri e voci in capitolo più responsabili, se possibile.
Consumo responsabile, turismo responsabile, responsabilità aziendale, civile e penale, la parola responsabilità non può più essere disgiunta da un’idea di sostenibilità, ma il linguaggio, di converso, è diventato sempre più insostenibile, dispositivo al quale nessuno crede di dover rendere conto, usato a caso come una mascherina sotto al naso.

E allora vorrei che anche per le parole venisse rivendicato il diritto di vivere e respirare in un habitat più sano, in una comunità di parlanti e scriventi consapevoli del fatto che una lingua immiserita, al pari della desertificazione, un giorno potrebbe presentare il conto a chi ne abusa indiscriminatamente, con lo sciopero degli scioperi: la capacità di verbalizzare un pensiero coerente in un pianeta con temperature che fondono Roma e toma e un homo sapiens diventato insipiens.
E, allora, faccio un sogno.

Sogno le parole stesse scendere in piazza: una compagine di 427.000 parole - tante le risorse del dizionario della lingua italiana - ognuna delle quali rivendica il suo ruolo e il significato della sua esistenza, la volontà di non essere scambiata con un sinonimo o qualcosa che suona simile, come autorità per autorevolezza, per esempio. Pensate.
I 47.000 lemmi del lessico comune che ribadiscono, ciascuno, cosa vogliono dire e le 6500 parole del vocabolario base di cui ci serviamo per il 98% dei discorsi, in prima linea, e le 2000 parole del lessico d’uso più corrente, costrette a ore e ore di straordinari, logorate più di un rider, a protestare: basta così!

Immagino le parole demansionate, le più disorientate, farsi coraggio. Si tratta di quelle parole che se ne stavano accucciate nel loro ambito preciso preciso e improvvisamente si ritrovano sulla bocca di tutti, termini che, come pangolini e pipistrelli, per sconsideratezza altrui, finiscono a compiere un salto di specie: “coprifuoco” che sonnecchiava dai tempi della guerra chiamato a combattere un nemico che in realtà è un filamento di acido ribonucleico - il famoso Rna - intento a fare il suo mestiere, “ristoro” costretto a migrare dalle aree picnic delle autostrade a conti bancari sempre più smilzi e, naturalmente, “algoritmo”, quell’algoritmo che, da procedura logica atta a risolvere un problema, si è trasformato in entità oscura e spiona, un delatore ignoto che tutto sa e tutto trama contro di noi. La quarantena dura quindici giorni, pare, mentre la narrazione, anima di infiniti racconti ed epopee, si aggira perplessa nei territori del marketing senza saper bene cosa dire. “L’ora è confusa e noi, come perduti, la viviamo”, Pasolini mi perdoni.

Immagino una paladina della biodiversità verbale, una 15enne che nello zaino ha anche il Devoto-Oli

Sogno un concerto planetario a sostegno di un uso corretto del vocabolario: We are the word! Il ricavato speso non solo a favore delle scuole, ma anche per una rieducazione degli analfabeti funzionali, per i quali l’Italia risulta in vetta alle classifiche dopo Indonesia, Cile e Turchia, secondo un’indagine Info Data-Sole24Ore del 2018. L’alfabetizzazione come istruzione di qualità è, tra l’altro, uno dei punti dei Sustainable Development Goals del programma Onu 2030. Forse, non sono l’unica a sognare.

Esiste uno strumento facilmente reperibile in rete, chiamato “Calcolatore di impronta di carbonio”, che misura l’impatto ambientale della nostra vita, cioè quanta Co2 produciamo con le nostre scelte. Vorrei esistesse un calcolatore di impronta di comprendonio capace di misurare l’impatto delle esalazioni di aria fritta, di tutti i discorsi, i commenti, i post e i tweet che si potrebbero evitare: immetti una frase nell’aggeggio e scopri quante emissioni superflue stanno per rendere irrespirabile l’atmosfera, se ciò che dici è sostenibile ed equo e solidale oppure buttato lì, come una cartaccia dal finestrino o le cicche in spiaggia.
Immagino una paladina della biodiversità verbale, una quindicenne con le trecce che nello zaino, oltre a scatolette di fagioli, porta con sé il Devoto-Oli. E stuoli di ragazze e di ragazzi a difendere il congiuntivo, il tempo delle ipotesi, dei sogni e dei desideri, e il condizionale, il tempo della responsabilità, della relazione tra causa ed effetto. E una riabilitazione delle subordinate che connettono fatti e ragionamenti, frasi complesse, addirittura, e non spezzate da miriadi di punti e a capo che disarticolano i pensieri.

Poi, un gran vociare mi sveglia dalle fantasticherie: sono gli studenti sotto casa che protestano per tornare in aula. E la scolionofobia, mi domando, la scolionofobia, che non è una parolaccia ma la paura della scuola, dov’è finita? Qualcosa sta già cambiando? Come si è augurato il nuovo Ministro dell’Istruzione: «Speriamo che faremo bene». Mentre ripongo la mia fiducia nella meglio gioventù, quella che dovrà inventare il vocabolario del mondo che verrà, il caro vecchio Scarabeo, gioco di società del secolo scorso, mi osserva impolverato dall’alto di uno scaffale. Oggi potrei vincere facile con “resilienza”, la parola collutorio del paternalismo e del conformismo, ma preferisco perdere con la parola cielo, nuvola, amore. Un cielo azzurro, a voler esagerare.