Si potrebbe quasi scrivere una storia segreta della pandemia con i bigliettini dettati ai fiorai negli ultimi dodici mesi. In quest'anno di allarme e distanze, chi vende e consegna fiori o piante ha trascritto storie di legami come un sismografo. Magari sono state sempre le stesse umanissime cose: mi manchi, vorrei essere lì con te, ma più dense e aggravate, dentro le grafie di perfetti sconosciuti. A volte non bastano le parole, a volte è lo spazio che non è abbastanza, soprattutto nel business dei fiori a domicilio. Julia Gray è una fioraia di Queens, a New York. Ha raccontato al New York Times: «A volte ero costretta a ricordare ai clienti che lo spazio del biglietto è piccolo, alcuni mi dettavano paragrafi interi di testo». Quando siamo entrati in lockdown, i negozi di fiori italiani si sono dovuti adattare al contesto e, come i ristoratori, hanno avviato intense attività di consegne digitali. Solo che i fiorai si sono trovati anche a essere messaggeri, a recapitare - insieme al prodotto - nostalgie, mancanze, strazi.
È successo spesso a Mario Nobile, che è stato manager di una grande azienda farmaceutica prima di scegliere i fiori e aprire Offfi, la sua bottega nel quartiere Isola di Milano. «Con la pandemia abbiamo dovuto cambiare modello di business», dice, col linguaggio della vita di prima. Dagli eventi e le location Offfi è temporaneamente passato al dettaglio e all'e-commerce. «In quei mesi tremendi c'era un boom di consegne, a mezzogiorno dovevo staccare il telefono perché non reggevo il ritmo». Con i fiori erano sempre allegati messaggi di vicinanza, dice Mario, genitori lontani dai figli, compleanni pandemici, coppie a distanza. E lutti, ovviamente, in quella formula distanziata che ha straziato decine di migliaia di famiglie in Italia. «Al telefono condividevano i loro drammi con me, in quei momenti ho perfino pensato di avere un'utilità, ho visto di tutto passare in quei messaggi». Un giorno ha dovuto consegnare un mazzo di fiori a una matricola universitaria rimasta da sola nell'appartamento condiviso con altri in un palazzone a Pero, confine nord di Milano. Aveva perso il papà, era bloccata a Pero da sola, una zia ha avuto il pensiero di mandarle dei fiori per consolarla e Mario è stato la persona che li ha fisicamente consegnati. «Questa ragazza aveva uno sguardo vuoto, perso. Non dovevo, ma mi è venuto di abbracciarla».
È successo anche a Irene Cuzzaniti, nel suo negozio di fiori a Milano, la Fioreria Cuccagna a Porta Romana, altro osservatorio involontario dei sentimenti di quartiere. Anche lei ha fatto da messaggera tra chi si è trovato separato, la stessa casistica del periodo assurdo che può raccontare ogni fioraio italiano, lo stesso bisogno di accorciare le distanze con un mazzo di fiori. «Non so quante volte ho scritto per conto di altri: vorrei essere lì ma non posso. Oppure: presto potremo festeggiare di nuovo. O riferimenti a festeggiamenti passati, a bottiglie bevute in altre occasioni, in anni meno strani di questo». Per Irene è stato un anno discontinuo, un sito La Fioreria Cuccagna ce l'aveva sempre avuto, ma lei non l'aveva mai spinto, perché non ne aveva bisogno. Poi c'è stato il grande ribaltamento, la stagione dei bigliettini. Da lì c'è stata la pausa estiva, in cui ha tenuto i corsi in giardino, c'era voglia di stare insieme e dedicarsi al verde.
I fiori e le piante sono stati anche messaggi che i clienti mandavano a sé stessi, perché a stare tanto da soli succede di aver bisogno di supporti esterni alle cose che uno ha da dirsi, e meglio se i supporti sono vivi. Nella clausura tanti si sono votati alle piante, al verde, per molti era la prima volta, novizi a cui spiegare le basi, tutto da zero. E Irene in questo processo ha visto un altro dettaglio: «I vasi. Le persone stanno comprando tantissimi vasi. Ne devo ordinare il triplo di prima. Mai venduti tanti da quando ho aperto». Perché i vasi, Irene? «Perché il vaso è un piccolo investimento emotivo, non è una questione di prezzo, ma di approccio. Anche se comprano una piantina di 15 euro, vogliono il vaso, anche se costa quanto la pianta. È la voglia di portare a casa qualcosa di finito, solido, iniziare qualcosa». Una specie di auto-messaggio di continuità. Qualcosa del genere è finito anche nel radar di Mario. «La gente aveva più voglia di prendersi cura dello spazio e della casa, ho visto un boom di persone che prendevano i fiori per sé, che si auto-regalavano un mazzo di fiori, anche importante, magari una composizione da cento euro, oppure una diversa a settimana. Era il desiderio di abbellire la vita e uno spazio che forzosamente è diventato quasi il mondo intero».
La realtà è ovviamente diversa, se la osserviamo con gli occhi delle associazioni di categoria, che vedono il disegno intero della filiera, un'immagine articolata, a tratti preoccupante. Dice Cristiano Genovali dell'Associazioni floricotori e fioristi italiani che nella primissima fase della pandemia il blocco e lo shock sono stati totali. I DPCM hanno riaperto i negozi solo ad aprile inoltrato, alcuni coltivatori hanno dovuto buttare via il 100% della produzione lavorata in inverno. «Sono stati macerati miliardi di steli. C'è chi li butta nel campo e li fresa col trattore. Altri li fresano in serra. Diventa concime. Una carissima sostanza organica». Poi, tra consegne digitali e riaperture, il fiore pandemico si è ripreso, il verde è stato da metà aprile in poi considerato un bene di prima necessità, come i libri. Il settore ha dovuto riorganizzarsi, perché in Italia vive soprattutto di eventi: matrimoni, cresime, battesimi, lauree, tutte cose perdute. Però c'è stata nel frattempo una nuova educazione nazionale al fiore. Secondo Genovali, un po' stiamo diventando come i nord europei, che il fiore ce l'hanno sempre nel paniere della spesa, perché porta il colore dentro le case quando all'esterno non ce n'è. La pandemia ci ha portato a bisogni simili, un rapporto diverso con i colori, le piante, la casa. Le piante fiorite da casa in particolare stanno vivendo un momento di splendore. Anche il singolo stelo è cresciuto, Affi stima il 10%, ma a fronte di un contesto depresso, che dopo il trauma del 2020 ha ridotto la produzione del 50%. E poi c'è anche un cambio generazionale: «C'è un ritorno al fiore nelle nuove generazioni, hanno una sensibilità maggiore, sarà l'estetica dei social, sarà la fotogenia, sarà Instagram, ma i fiori sono tornati tra i giovani».