Era sparita, accantonata, dimenticata. Ma da settembre l’educazione civica ha fatto la sua rentrée trionfale nei programmi scolastici di ogni ordine e grado.
Ho un attimo di smarrimento. Se ripenso a quando l’ho studiata io, mi vengono in mente un libro un po’ ingiallito e lezioni di nozionismo e noia pura di cui non mantengo traccia alcuna. Ora invece è cambiata, evoluta, partecipata. Il piano di studio prevede minimo 33 ore all’anno (all’interno del monte orario complessivo) multidisciplinarità, competenze trasversali, e tre macro temi con mille declinazioni: la Costituzione, lo sviluppo sostenibile (con tanto di educazione ambientale, educazione alimentare, tutela del patrimonio e Agenda 2030 delle Nazioni Unite - solo per questo ho dovuto digitare su Google) e cittadinanza digitale (con competenze e nozioni che riguardano anche cyberbullismo, fake news etc.). Ho il secondo attimo di smarrimento: mi pare troppo, mi pare immenso. E mi chiedo, da che parte si comincia? Respiro, rispolvero la mia Costituzione (educazione civica per me è quello, soltanto quello, altri temi non mi pare fossero contemplati), dopodiché mi fiondo nella stanza del figlio novenne, spulcio tra il suo materiale e trovo nell’ordine: due libri proprio di educazione civica (d’ora in poi e.c.), che ricompare a spot (eccola la multidisciplinarità) anche nei testi di geografia, storia, scienza e tecnologia, e lettura (sì, lettura). Poi una sera non resisto e chiedo: «Ma voi la state facendo e.c?». E ottengo un «L’abbiamo iniziata da poco», come laconica risposta. E dopo una pausa che sembra la chiusa di un sipario - l’essenzialità sui temi scolastici è insita nel novenne - aggiunge: «Stiamo parlando dei cambiamenti climatici» (e io dentro di me non posso che ringraziare Greta Thunberg per aver portato il problema dell’ambiente a imprimersi a fuoco nelle coscienze di ragazzi e bambini).

A smentire il “da poco” che in fondo un po’ mi stonava, arriva la pagella che alla voce e.c. riporta un giudizio complessivo che riguarda lo stare a scuola, il collaborare con il lavoro collettivo, l’avere un comportamento adatto alla civile convivenza. E allora penso che forse nella sua percezione l’ha iniziata da poco (quantomeno tematizzata sui banchi) ma che fa talmente parte del nostro tessuto connettivo, dello stare insieme, di come ci comportiamo a casa, nel mondo, che la respira a sua insaputa da parecchio. Se torno indietro e penso ai fondamentali, credo che la chiave di volta da cui è iniziata la sua formazione al vivere civile stia nel concetto di rispetto - che gli ho ripetuto e gli ripeto allo sfinimento - per le persone, per sé, per gli altri, per le regole, per le cose. Tanto che ora, non so se a forza di sentirlo o per introiezione, comincia ad appartenergli. Cosa di cui mi accorgo quando camminiamo per strada, e ci fermiamo a un semaforo rosso anche se non si avvistano macchine nel raggio di chilometri.Quando siamo al parco, e guarda desolato le carte per terra perché non si fa. O di quanto ci resta male, tra amici, in classe, ovunque, se avverte che qualcuno ha un trattamento diverso dagli altri, perché se ci sono delle regole allora valgono per tutti. Perché - altra cosa che è quasi un mantra genitoriale - siamo tutti uguali, tutti con gli stessi diritti conquistati negli anni, e gli stessi doveri, di cui ci dobbiamo ricordare.

Se ci guardo da fuori come su una vecchia pellicola, mi accorgo che di e.c. nelle sue varie declinazioni ci è capitato di parlare spesso. Mai per decisione programmatica, per ordine del giorno stabilito, ma inciampando in situazioni concrete.
Come la volta in cui l’ho coinvolto nella spasmodica ricerca della tessera elettorale (la perdo con una caparbietà ostinata) che è diventata un motivo per parlare di cosa vuol dire votare, del perché è importante esercitare un diritto che è anche un dovere, una libertà preziosa che ci siamo conquistati. O quella in cui da un gioco elettronico che voleva scaricare il discorso è passato al web, ai suoi pericoli, al fatto che è uno strumento potentissimo pieno di cose vere e di cose false e di quanto possono fare male le parole che viaggiano sulla rete. O di quando ascoltando in loop Pensa di Fabrizio Moro (il novenne ha gusti musicali assai definiti) ci siamo concentrati sul testo, sulle parole che riportano alla mafia, evocano Falcone e Borsellino e da lì è partito il racconto di chi erano, cosa è successo, cosa vuol dire legalità.


Certo sono momenti. E quando ogni tanto capita che sia lì con noi a guardare il telegiornale e magari parla il Presidente della Repubblica e comincia a chiedere chi è, cosa fa, perché (i perché dei bambini credo non finiscano mai) e io mi cimento in spiegazioni forse troppo teoriche e prive di appeal, mi rendo conto di quanto è importante che questa materia sia tornata nelle scuole, e che venga affrontata per gradi ma in modo sistematico da chi sa meglio di me quali sono le parole giuste per accompagnarli a capire. Mi rendo conto di quanto ci riguarda. Di quanto è e sarà fondamentale. Per aiutarlo a sviluppare gli strumenti critici, a capire, a diventare non solo un cittadino ma un essere umano più consapevole. Se penso a lui in campo lungo, lo osservo proiettato nel tempo, vorrei che alcune cose gli rimanessero stampigliate nella testa. Che nessuno potrà impedirgli di esprimere le sue opinioni perché questo è un diritto, come diritti sono l’istruzione, il lavoro (oh sì, il lavoro) e la salute. Che libertà, come cantava Gaber, è partecipazione. Che ha una parte attiva nella costruzione del futuro, nel rendere il mondo un posto migliore.

E mentre mi perdo in domani immaginati a riportami al qui e ora ci pensa il novenne che dalla cucina esclama: «Però la carta delle patatine va nella plastica non nell’indifferenziato». Allora mi scuso (sì-colpa-mia-ero-distratta) e concludo che, certo non ha ancora un’idea chiara di cosa sia la Costituzione e di mille altre cose, ma a curarsi del mondo ha già iniziato. Il resto verrà. Un passo alla volta.