Forse non ci avete fatto caso, perché impegnati nel seguire una dieta mediatica con priorità più impellenti – come il conteggio dei casi di Covid-19 o quello dei mourners (piagnoni) alle esequie del povero Duca di Edimburgo – ma c'è un nuovo avverbio in città. Pure: due sillabe per esprimere così tanto e tanto poco, secondo i casi. Nuovo si fa per dire, perché viene di peso dal latino e Dante lo aveva usato 153 volte nella sola Commedia. Ma, almeno nel suo impiego come avverbio additivo (pure lui si è fatto vaccinare), pure non sembra essere mai stato così in voga come oggi, a discapito del suo sinonimo anche. Il 2021 sarà ricordato, tra le altre cose, quale l'anno del pure? Probabilmente no, ma è un tema che vale comunque la pena di approfondire.

Con la purea di patate pure non condivide solo l'albero genealogico (dal francese purée, derivato dal francese antico purer «spremere», derivato a sua volta dal latino tardo purare «pulire, purificare», derivato, infine, da purus «puro»), ma anche la tendenza a stufare, quando abusato come contorno, sia di secondi da asporto che di altre parti del discorso.

L'incremento dell'uso orale e scritto di pure additivo (e non, ad esempio, di pure congiunzione concessiva: Pur frequentando la movida, andrà tutto bene, occorrenza ormai rara quasi come il buonsenso o l'educazione) è uno di quei fenomeni che, sulle prime, potresti non notare. Ma constatato amichevolmente una seconda, una terza, una quarta volta, non puoi fare a meno di fartene ossessionare, alla stregua di un pezzetto di rucola tra i denti del vicino a tavola (che è sempre più verde del tuo). A questo atteggiamento, come in tutte le diatribe in cui non si saprà mai chi ha prodotto la prima goccia e chi ha fatto traboccare il vaso, si contrappone quello di chi, in cuor suo, sa che non è necessario usarlo, che è del tutto opzionale,

ma sa pure che ti dà fastidio e ne abusa ogni volta che può.

Negli ultimi mesi pure sembra essersi preso la sua rivincita su anche a partire dai tre ambiti conversazionali dello spazio-tempo pandemico: a casa, al lavoro, sui social (di fatto confederati in uno solo, il terzo); cominciando a farsi largo nei titoli di giornale, in televisione o alla radio, e negli altri canali di comunicazione mediata più vicini alla lingua parlata che al rigore quasi didattico cui un tempo la sottoponevano.

Come ci ha fatto notare in uno scambio gentilissimo e provvidenziale di e-mail Anna-Maria De Cesare Greenwald (Professoressa di Linguistica generale e Linguistica Italiana presso l’Università di Basilea), il documento che definì, nel 1947, l'ordinamento giuridico del nostro Stato aveva di fatto escluso dal suo testo l'uso di pure come avverbio additivo: "Sono andata a vedere come si usano anche e pure nella Costituzione della Repubblica italiana. Il quadro è abbastanza netto: pure/pur non compaiono mai, mentre anche si trova una ventina di volte, per esempio nell’Art. 62: “Quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l’altra”. Se proviamo a sostituire anche con pure, subentra una coloritura regionale che in questo tipo di testo non ha nessuna ragione di comparire".

De Cesare è una delle poche reali autorità in materia di binomio anche-pure, con studi specifici all'attivo e con un filone di ricerca in corso sull’uso persuasivo o "addirittura manipolatorio" di forme come anche e pure in testi giornalistici, social media e testi pubblicitari.

Ci ha spiegato che "del binomio anche-pure la forma standard, non marcata, è la prima. Non è connotata a livello di registro (come formale o informale) e, nello scritto, non è neanche connotata a livello geografico. Pure invece è marcato a più livelli. Il suo “profilo” sociolinguistico è però complesso da tracciare. Stando a dati sulle varietà regionali parlate in Italia (che risalgono però a qualche decennio fa), si osserva che pure è usato più di frequente a Roma e a Napoli che a Milano e Firenze. Nelle varietà del Sud, pure è la forma più naturale (non marcata) per esprimere il valore additivo, mentre nelle varietà del Nord e in Toscana la forma standard con valore additivo è anche".

Allora cosa ci spinge a usare pure invece di anche, nei casi in cui sono sinonimi?

"Se una delle due forme è usata per vezzo" – sempre De Cesare – "non può dunque essere che pure. Per via della sua connotazione geografica e stilistica, è chiaro che questa forma si presta bene a essere sfruttata per evocare una parlata regionale (quando ha valore additivo) o una lingua più formale (quando ha valore concessivo o avversativo)".

Dunque anche se, per la scienza, la scelta del pure additivo è del tutto corretta, proprio perché fatta arbitrariamente tende a risultare divisiva. Esistono infatti soggetti puristi e anchisti, distinti in base a quale tra i due avverbi, in condizioni di pari significato e condizioni atmosferiche, preferiscano usare per esprimere lo stesso significato. Sembra che anchisti si nasca, mentre puristi si possa pure diventare.

L'anchista non ha niente da dimostrare, è sicuro di sé e non si pone il problema della marcatura o della coloritura del suo avverbio additivo prediletto: saranno l'enfasi o la mimica a garantirgli, presso il pubblico di riferimento, la necessaria contestualizzazione. Il suo rapporto con il purista è quello che si intrattiene con un cugino il cui look stravagante gli sta giovando forse in ambito social, ma che resta inevitabilmente provinciale.

Il purista è più ambiguo o comunque scaltro: tende a infarcire di falsa ironia le sue proposizioni e a calare il suo asso nella manica avverbiale quando non vuole assumersi del tutto le sue responsabilità (Sono uscito pure con la mascherina!), un po' come si fa con un'emoji che arrossisce quando si vuole bilanciare il significato di un messaggio passivo-aggressivo di troppo in una chat.

Taccia l'anchista di banalità, passatismo e, nei casi migliori, di imborghesimento.

Quando nasce un sentimento tra un anchista e un purista, neanche fossero Montecchi e Capuleti, nasce in barba agli insegnamenti materni: Figlia mia voglio che tuo marito sia bello, ricco e che usi pure solo nel significato pleonastico. Si tratta quasi sempre di storie sofferte ma a tratti molto tenere, soprattutto quando i due soggetti cominciano a dedicarsi frasi dolci che contengono, come prova d’amore suprema, l'avverbio prediletto dell‘altro, con esiti a volte struggenti in cui lo usano, inevitabilmente, a sproposito. Quando confessate ti amo a qualcuno, accettate la risposta: pure io. Ma se vi rispondono solo pure!, scappate a gambe levate.

I puristi si dividono a loro volta in due filoni: quelli moderati, che usano pure più che altro per evitare una ripetizione di anche; e quelli integralisti, che hanno di fatto sostituito anche con pure.

Non si soffre sovente di invidia del pure ed è altrettanto raro essere affetti da orgoglio dell'anche. Tuttavia gli anchisti si biforcano a loro volta: ci sono gli anchisti tolleranti (a onor del vero, la maggior parte) e i veri hater del pure. Questi hanno aggiunto un nuovo mestiere alla lista di quelli collettivi in cui il popolo italiano ama riconoscersi, quando le circostanze lo richiedono: allenatori della Nazionale in tempo di Mondiali, virologi di quartiere sotto lockdown e, da qualche tempo, anche se all'interno di nicchie più ristrette, linguisti della domenica.

I più conservatori tra loro tollerano l'uso del pure solo nei sintagmi congiunzionali, possibilmente troncato (che fa più fino): pur ché, se pur.

Nel resto della casistica, il pure, per loro, non esiste. Con ostinatezza da baroni rampanti, a volte sono più le fatiche che fanno per evitarlo rispetto al danno che farebbero al loro eloquio se ogni tanto lo pronunciassero, magari condito con un filo d'autoironia. Per questi anchisti la parola pure era ambigua e malfidata fin dall'italiano antico, dove poteva essere non solo sinonimo di anche e di nondimeno ma addirittura di soltanto. Poteva essere, in altre parole, tutto e il contrario di anche.

A certi aperitivi su Google Meet lo sentono così spesso che comincia a suonare loro quasi osceno. Alcuni ne fanno infatti, più o meno consciamente, anche una questione di fonetica. Sarà il piccolo sputo insito onomatopeicamente nell'occlusiva bilabiale sorda con cui pure comincia*? In effetti, non ce ne vogliano fonemi rispettabilissimi come quelli che danno il via alla pronuncia di putacaso o pudicizia, ma non sono poche le parole italiane che, cominciando con -pu, portano a concetti non proprio confortanti: putrefazione, pus, per tacere di pupù.

La vera carica innovativa dell'affermazione del pure additivo come elemento del lessico cool è che, per una volta, parte dal Sud e non dal Nord e, per altri versi, dall'italiano corretto e non dall'inglese maccheronico. È un grande classico del corporatese darsi un tono con la lingua degli altri. Preferire il pure è darsi un tono con l’italiano stesso, anzi addirittura col latino. Nella fattispecie: con un latino che ritorna d'attualità attraverso un regionalismo di stampo meridionale. Del resto i latinismi sono come gli amori non convenzionali per Antonello Venditti: fanno dei giri immensi e poi ritornano.

Se davvero il pure additivo sta tornando in auge in quanto antidoto alla presunta banalità del semplice, fidato anche, lo fa, allora, come tentativo poco risqué di ricercatezza facile, cessando peraltro quasi immediatamente di rappresentarne alcuna. Un pizzico di originalità lessicale in più col vantaggio dell'essere low cost, o comunque meno high maintenance rispetto a espressioni alternative che profumano allo stesso modo dell'originale, ma finiscono per avere un retrogusto di corbelleria, come dire zeste di limone al posto di scorza.

Quando diventa un vero e proprio abuso, però, la preferenza per pure diventa espressione di potere politico, economico o sentimentale.

Nei casi estremi siamo sulla falsariga del piuttosto che non avversativo che, di fatto, accettiamo quando a produrlo è un superiore in organigramma o un interesse amoroso, almeno nelle prime fasi del corteggiamento. Gli utenti più sregolati di pure, sebbene sappiano, in cuor loro, quanto interlocutore possa tenere alla sua sana alternanza con anche, eccedono lo stesso. Il che equivale a pulirsi il naso impunemente durante un colloquio di lavoro o un primo tête-à-tête romantico: per loro non conta niente ma ogni singola parola o gesto è tutto per lo stipendio o la felicità del candidato.

Per restare nel contesto aziendale è come se – giunta alla saturazione l'era degli anglicismi – tramite la fortuna del pure, fosse in atto una reviviscenza di forme regionali e dialettali, usate per rendere anche i ritmi e il linguaggio aziendale per renderlo più accettabile o sostenibile. Meridionalismi che non servono più solo a mostrare di essere habitué dei mercatini dell'artigianato in Puglia, ma che si collocano nel contesto più ampio dell'umanizzazione delle conversazioni corporate, cominciato grazie alla zoomification casalinga dei codici e delle tattiche delle riunioni di lavoro (es.: peggio sei vestito e più hai potere contrattuale).

A seconda che siamo anchisti o puristi assistiamo a un circolo vizioso o virtuoso, in cui quella parolina, pure, dalla dimensione colloquiale fa sempre più breccia in quella formale e, di rimando, una volta normalizzata dall'uso ufficiale, torna nelle bocche e nelle tastiere di tanti. Se, per il proliferare di pure, è bastato confondere il soggiorno con l'ufficio, l'habitat ideale per la sua consacrazione potrebbe essere l'app Clubhouse, che altro non è che la versione disintermediata della radio disintermediata (cioè dei podcast) e che, se non fosse già in piena crisi vocazionale (cosa particolarmente triste per un medium vocale) avrebbe tutte le carte in regola per essere per i colloquialismi e i regionalismi elevati a instrumentum regni delle classi mediaticamente dominanti quello che la Rai degli anni Sassanta fu, con impeto uguale a contrario, per l'unificazione della lingua italiana.

Può sembrare – ed è – paradossale che, in un mondo in cui le parole si usano ormai soprattutto per litigare, possano contribuire a inasprire le differenze tra persone perfino due di esse che, da tempo immemore, non hanno fatto altro che tendersi la mano, da buoni sinonimi, e tenderla a tutte le altre, da ottimi avverbi additivi.

puranche, quel mostro bicefalo che si forma quando le due parole si uniscono in una chimera linguistica che puoi usare solo se sei Guido Gozzano o se sei davvero in seria difficoltà a Scarabeo.

Non è affatto detto che dalla concordia fra un purista e un anchista non possano nascere esseri migliori. E non ci riferiamo a puranche, quel mostro bicefalo che si forma quando le due parole si uniscono in una chimera linguistica che puoi usare solo se sei Guido Gozzano o se sei davvero in seria difficoltà a Scarabeo. Ci riferiamo a tutti noi. Se possibile, non dividiamoci anche sugli avverbi. Per quanto possiamo voler male agli eccessi di pure ed essere stanchi dell'onnipresenza di anche, non possiamo non riconoscere che entrambe le parole contengano in sé uno straordinario antidoto alla tendenza alla polarizzazione. I pure e gli anche che aiutano a crescere sono parole d’inclusione, di dialogo, di superamento dei blocchi ideologici e post-ideologici, del manicheismo. Sono segno dei nostri tempi come gli assoluti lo erano per epoche passate, quando avevamo genitori più severi e maestre dalla penna più rossa di quanto potremmo mai averla noi.