Sono esotici, affascinanti e maschi maschi. Hanno occhi magnetici, portano la barba folta e la chioma incolta. Avete presente (certo che sì) il modello greco Paraskevas Boubourakas, che ha sfilato per Roberto Cavalli e Giorgio Armani nell’ultima settimana della moda? Ecco, i Sikh sono più o meno come lui, ma invece dell’haute couture indossano vesti tradizionali indiane e invece di affidarsi all’hairstylist raccolgono i capelli in turbanti di stoffa colorati.

Da decenni arrivano a frotte dal Punjab, dove la situazione è un filino tosta, per costruirsi una nuova vita in Usa, Canada ed Europa. In Inghilterra hanno trovato una patria d’elezione e riconoscimenti pubblici, come il Sikh Award da poco celebrato a Londra, dedicato ai rappresentanti più illustri: imprenditori, scienziati, maghi della tecnologia. In Italia sono arrivati a decine di migliaia per allevare le mucche e adesso si comprano le fattorie, in una fetta di pianura che si estende tra Lodi, Cremona, Mantova e Reggio Emilia.

Ora, il caso vuole che la loro religione consideri il matrimonio una condizione onorevole, il celibato uno status da sfigati e il tradimento un disonore. Ne consegue che per qualunque donna con un po’ di sale in zucca, i Sikh che vivono a un passo dal nostro naso rappresentino una riserva di buoni partiti a colpo sicuro, perlomeno da visionare. La vostra inviata è andata a incontrarli nel cuore della loro comunità per capire se (e come) questo matrimonio interculturale s’ha da fare.

Indovina chi (non) viene a cena
La prima cosa da sapere per un rapporto felice coi Sikh è: mai essere impazienti. L’inviata aveva appuntamento alle 17 al tempio (il primo è stato inaugurato nel 2000 in provincia di Reggio Emilia, poi ne sono spuntati quasi trenta). Il “gancio” si è presentato alle 19. Dev’essere perché nel loro calendario spirituale il capodanno si celebra a metà marzo: la concezione del tempo risulta un po’ sfasata. L’attesa è scandita da litri di tchai, una miscela di tè e latte bollente, servito non-stop da giovani Sandokan sorridenti.

Nel luogo sacro/di ritrovo della comunità funziona così: 1) tutti sono benvenuti: devoti, ospiti e pellegrini, il che fa ben sperare in una serata da socialite; 2) una sala è dedicata alla preghiera e alla musica: un mix di nenie, sitar e armonium, che ricorda il sottofondo ipnotico dei workshop di yoga; 3) un grande spazio è dedicato alla mensa comune, autofinanziata e autogestita come quella del Golden Temple di Amritsar, perché chiunque arrivi possa trovare sempre un piatto, vegetariano, caldo. E il tchai di cui sopra.

Ti siedi per terra su una lunga striscia di tappeto, prendi gusto all’idea di stare (obbligatoriamente) a piedi nudi tra decine di estranei e di mangiare lenticchie piccanti, con le mani, in pieno pomeriggio. Rendi omaggio a tanta generosa fratellanza. Finché ti accorgi (tu inviata) che non tutte le file sono uguali, e che tu (tonta) sei seduta ovviamente in quella sbagliata. Per l’indagine in corso potrebbe essere un problema: uomini e donne sono divisi in file separate. Ops.

Prima di farsi assalire dallo sconforto, l’inviata in ambasce ricorda di aver letto sui pamphlet divulgativi tradotti frasi tipo: «La nascita di una figlia non è considerata di cattivo augurio» e «Non esiste l’usanza della sati, l’immolazione della vedova sulla pira del defunto marito». Un chiaro segno della volontà di affrancarsi da stereotipi vetusti e mendaci. E in effetti, finora, nessuno le ha chiesto di spostarsi. Perché allora questa fissa delle sedute separate? Mando giù l’ultimo boccone di samosa e lo chiedo al mio vicino di tappeto, al secolo Jkrhtsqualcosa Singh.

Chi ha incastrato i Singhle man?
Parentesi: dovete sapere che i Sikh, ortodossi o casual, usano tutti lo stesso cognome, Singh appunto, che vuol dire “leone”, per i maschi; Kaur alias “principessa” per le donne. Vuol dire che nessuno di loro (se riuscite a impalmarlo) vi chiederà mai di abbandonare il vostro nome da signorina, facendovi così risparmiare riemissioni di carte di credito e scardinamenti di citofoni. Facendo un passo indietro, per chi volesse venalmente individuare un possibile marito facoltoso, merita memorizzare che chi ha i soldi, e ci tiene a farlo sapere, dopo Singh aggiunge un nickname che identifica gli appartenenti alle caste più abbienti.

Tranquille. Le caste vere sono state abolite ufficialmente nel 1699; ora, soprattutto fuori dall’India, fungono per lo più da status symbol, come il Suv o un contratto a tempo indeterminato. In ogni caso, il nostro Sig. Singh n. 1 (senza suffissi, fa il perito informatico) offre una spiegazione convincente della bipartizione tra uomini e donne: «Se fai sedere uomini e donne vicini, chi prega più? E poi succedono casini». I casini a cui si riferisce, con un’adorabile esse/zeta emiliana, sono le rivalità per accaparrarsi la più bella.

Shakespeare e Tagore, in fondo, raccontavano le stesse storie. Che sollievo. Altro che misoginie latenti, l’interesse per le donne qui sembra essere molto sviluppato. L’inviata rincuorata ora è pronta a lasciare il tappeto sbagliato e a seguire il Sig. Singh n. 2, 24enne bello come il sole, turbante color del mare, con una posizione decisa nei confronti delle ragazze della sua khalsa (la comunità Sikh): lui ha chiuso, kaputt, troppe complicazioni, troppe orecchie lunghe intorno.

È il momento che aspettavo da almeno tre tchai: «Allora per conquistare un po’ di libertà, ti fidanzi con un’italiana?». Singh 2 sorride con le lucine negli occhi. Che l’inviata sfacciata abbia fatto colpo? Poi tira fuori l’iPhone: c’è una dannata foto della sua promessa sposa (indianissima). L’ha scelta perché è orfana, povera (e un fiore), e «tutti i Sikh hanno una missione: fare del bene». Lei lo raggiungerà fra due anni. Fino ad allora si sentiranno solo via Skype. Due anni, chiaro? E nel frattempo? Sorride: «Te l’ho detto, io ho chiuso». Se questi sono i giovani, tanto vale andare a chiedere ai Grandi Vecchi.

Saranno mogli, buoi e carri tuoi
Il gancio-ritardatario-barba-bianca sembra uscito da un’illustrazione di Bilibin, il maestro russo della Golden Age: impeccabile nei suo punjabi suit greige, con turbante arancio impreziosito dalla khanda (un fibbione simbolico dorato che ha a che fare con la Responsabilità), e una sciabola da cerimonia che pende dal camicione. Con lui ci sono altri Saggi, arrivati qui da quasi trent’anni, ma rimasti praticamente invisibili, ancora un po’ debolucci con la lingua ma impazienti di raccontare la loro versione della storia. Quella politica, però.

Provocazioni tipo: «Siete storicamente un popolo di guerrieri, ma il vostro primo comandamento di fede è: “Non uccidere”. Siete un po’ come la Svizzera, neutrali ma con un esercito potentissimo?», non riescono a interrompere un monologo di 55 minuti. Il cui succo è: loro sono i buoni. L’inviata frastornata deve approfittare di un cambio di posizione del Grande Vecchio (anche i Sikh sono colti da formicolii, seduti sul pavimento) per introdurre un’accorata, filiale, inopportuna richiesta: «Adesso siete qui. Se suo figlio si innamorasse di una donna non Sikh, sarebbe ok?». La risposta porta con sé un’inaspettata concisione metaforica: «Sai com’è un carro? (Domanda lecita da rivolgere a un’inviata metropolitana, ndr). Se le due ruote sono parallele il carro va veloce. Se una ruota tira da un lato e la seconda dall’altro, il carro si spacca».

Amori alla curcuma in vista
Mai disperare. Quello che si è descritto finora succede dentro al tempio. Fuori, confusi nella nebbia, i Sikh raccontano un’altra storia. Riassumendo: 1) sì, sono davvero dei bravi ragazzi, non bevono alcol, non fumano, donano costantemente il sangue e fanno volontariato, in tutto il mondo; 2) abbassano gli occhi quando gli vengono rivolte domande a bruciapelo come: «Credete anche voi nel kamasutra?»; 3) però con le donne italiane escono eccome: così imparano meglio la lingua, a cucinare una piadina vegetariana perfetta e altre pratiche rigorosamente pre-matrimoniali; 4) alla domanda sui poeti preferiti citano Vasco (Rossi), mostrando una discreta aderenza alla realtà che li circonda; 5) decisamente non sono fan delle minigonne (buh), ma neanche della taglia 40 (wow); 6) per le fashion victim: no, non c’è modo di trovare in giro i magnifici sari di seta color rosso caprifoglio (nuance dell’anno 2011) ricamati d’oro visti oggi.

Ma se vi fidanzate con un Sikh, ve ne ordinerà uno direttamente dall’India, da 499 euro in su; 7) qualcuna, prima di noi, ce l’ha fatta. Come l’avvocatessa emiliana che ha impalmato un Signor Singh con tutti i crismi: ci ha fatto tre figli, due li ha miniturbantizzati secondo la religione Sikh e uno battezzato in chiesa. A volte vengono qui, a volte si ritrovano in parrocchia, spesso vanno via per il weekend. E si amano come colombi.

Almeno questo insperato accenno di idillio mi fa pensare di meritare una seconda chance. Per tutto aprile i Sikh festeggiano la Baisakhi, la festa di primavera, con processioni, sfilate, danze ed esibizioni marziali all’aperto nei centri storici delle città più Sikh-friendly (come Brescia, Novellara, Mantova). L’inviata non mancherà. Però prima ha qualche dritta da chiedere a una certa avvocatessa fortunella.