“Meno del 5% degli artisti della sezione di Arte Moderna sono donne, ma più dell’85% dei nudi sono femminili.” Era il 1989 quando il gruppo di artiste Guerrilla Girls, con l’opera provocatoria Do women have to be naked to get Into the Met.Musem? riempiva gli spazi pubblicitari di New York, dando vita a una bufera mediatica. Non si è ancora placata la voce della protesta (come dimostrato dal recente scandalo Weinstein o dai neonati movimenti di denuncia come #MeToo) ma, da trent’anni a questa parte, le donne sono effettivamente riuscite a varcare la soglia del museo, vestite. E soprattutto autorevoli, preparate, brillanti e propositive. Alla direzione di importanti istituzioni o nel ruolo di curatrici indipendenti, le storie di queste figure meritano di essere raccontate. E con loro, quel retrogusto di amore e lotta che caratterizza ogni conquista. Oggi parliamo di...

Le dobbiamo tutti moltissimo, anche senza sapere chi sia. Le dobbiamo tutti mostre che abbiamo subito, artisti che abbiamo scoperto, shock che abbiamo amato. Il mondo dell’arte è fatto di curatori invisibili, o meglio, poco conosciuti ai non addetti ai lavori e per questo idolatrati nel Paese abitato dai direttori di musei, collezionisti, galleristi. E ovvio: artisti. L'artefice di tutto questo è (anche) Katherine Brinson, classe 1980, un curriculum che si incrocia (e si conferma) di pari passo al Guggenheim di New York. Ma la storia di Katherine Brinson è soprattutto una carriera/ispirazione che parte da Cardiff, passa per la Oxford University e un master all’Institute of Fine Arts di New York. Una formazione accademica in storia dell’arte contemporanea, chiaro. Poi però arriva al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, diventa assistant curator dell’attuale direttrice Nancy Spector. E inizia TUTTO. Ovvero tutte quelle mostre che abbiamo visto grazie a lei. Nel ruolo di co-curatrice il primo artista con il quale si confronta è lui, Maurizio Cattelan. La mostra è All, sì quella con la quale Cattelan aveva annunciato il ritiro dalle scene artistiche (fake no fake? Provocazione non provocazione?).

Chiamato nel 2011 per una retrospettiva personale, l’artista decide di invertire la tradizionale impostazione espositiva. Le opere vengono fatte pendere tutte assieme dal soffitto, dando vita a un vortice affastellato nello spazio centrale, sfruttando la peculiare architettura circolare che caratterizza il Guggenheim. Come dire, una mostra decisamente epocale da co-curare (qui sotto la maxi installazione).

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Dal 2010 inizia per la curatrice l’impegno nell’organizzazione dell’Hugo Boss Prize, riconosciuto come uno dei premi di arte contemporanea più prestigiosi a livello mondiale. Attivo dal 1996, prosegue a cadenza biennale sotto l’amministrazione della Solomon R. Guggenheim Foundation; una selezione che non prevede limiti di età, genere e nazionalità, il cui primo premio prevede la somma di 100mila dollari destinata a un solo vincitore. Una grossa responsabilità da affrontare, ma, come dichiara Katherine Brinson in un articolo a Interview Magazine “Non hai bisogno di un tipo di appoggio decennale da parte delle istituzioni. Devi fidarti del tuo istinto”. Tra i finalisti dell’edizione 2018 vi è la messicana Teresa Margolles, in mostra fino al 20 maggio al PAC di Milano con la personale, di forte impatto, Ya basta hijos de puta.

Notevole per il suo carattere critico è anche Cristopher Wool, con cui la Brinson collabora nel 2013, in occasione della retrospettiva intitolata proprio Cristopher Wool: l’artista espone una poetica urbana e tetra, utilizzando vernice spray, serigrafia e pittura a mano. Le sue tele, che delineano in modo aggressivo e crudo i tratti più critici della società, riportano a lettere cubitali: Sell the House, Sell the cars, Sell the kids, oppure Spokseman, Insomnian, Hypnotist, Pessimist, Hypocrite.

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Come si diventa una curatrice in uno dei musei più importanti del pianeta? Correndo anche dei rischi. Che si rivelano miracoli. L’esempio è quando Katherine Brinson incontra Dimitris Daskalopoulos. Il magnate ateniese, che ha fatto la sua fortuna nell’industria alimentare, è apparso al 22esimo posto (appena sopra Leonardo DiCaprio) nella classifica dei 100 collezionisti più potenti al mondo (posizione conquistata nel 2016 secondo Artnet). Già noto al mondo dell’arte aver acquisito negli ultimi due decenni più di cinquecento opere contemporanee, ha fondato nel 2013 l’organizzazione no profit NEON che, tramite numerose iniziative, muove un fermento culturale in tutta la Grecia. A fine di luglio 2017 quando si diffonde la notizia ufficiale della “Daskalopoulos Curator” "Il dono generoso che ci fornisce una postazione curatoriale permette al Guggenheim di perpetuare l’impegno di collezionare ed esporre l’arte più stimolante e innovativa del nostro tempo. Siamo profondamente grati a Dimitris e ci congratuliamo con Katherine Brinson, la cui preparazione, competenza e approccio collaborativo al lavoro con gli artisti ha dato molto al campo dell’arte contemporanea”. Ennesima conferma che le donne potenti nell’arte si muovono con massima discrezione ma conquistano palchi notevoli.

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Danh Vo rappresenta ultima sfidadi Katherine Brinson: l’artista danese di origini vietnamite opera tramite un processo di accumulo intenso e di collezionismo meticoloso di fotografie, oggetti e tutto ciò che rappresenta il ricordo, un frammento della sua difficile infanzia vissuta nella condizione di rifugiato. Nel 2015 ha rappresentato la Danimarca alla Biennale di Venezia, portando un padiglione spoglio, ridotto all’essenziale, con un’architettura pura fatta di pietra calcarea e serramenti in teak birmano e l’uso della sola luce naturale; all’interno, un progetto basato sull’estetica del reperto, oggetti provenienti da svariate nazioni e civiltà posati a terra, senza l’uso di piedistalli né sovrastrutture, raccontando una storia universale concentrata in una stanza. L’attuale fama ottenuta dall’artista e le cifre milionarie raggiunte da alcune sue opere lo lasciano esterrefatto, come dichiara lui stesso al New Yorker: “Non capisco come sia possibile. L’intera storia è pazzesca. Appena uscito dalla scuola d’arte non ero nemmeno in grado di badare a me stesso”. Take my breath away, la mostra attualmente ospitata al Guggenheim Museum (fino al 9 maggio foto in apertura), raccoglie la sua produzione degli ultimi quindici anni, che indaga il potere di religioni, capitalismo, colonialismo e mette in luce i paradossi della società occidentale. Un progetto voluto e realizzato interamente da Katherine Brinson, che con questa mostra consacra la propria posizione all’interno del museo newyorkese. E del mondo.