“Meno del 5% degli artisti della sezione di Arte Moderna sono donne, ma più dell’85% dei nudi sono femminili.” Era il 1989 quando il gruppo di artiste Guerrilla Girls, con l’opera provocatoria Do women have to be naked to get Into the Met.Musem? riempiva gli spazi pubblicitari di New York, dando vita a una bufera mediatica. Non si è ancora placata la voce della protesta (come dimostrato dal recente scandalo Weinstein o dai neonati movimenti di denuncia come #MeToo) ma, da trent’anni a questa parte, le donne sono effettivamente riuscite a varcare la soglia del museo, vestite. E soprattutto autorevoli, preparate, brillanti e propositive. Alla direzione di importanti istituzioni o nel ruolo di curatrici indipendenti, le storie di queste figure meritano di essere raccontate. E con loro, quel retrogusto di amore e lotta che caratterizza ogni conquista. Oggi parliamo di...

“Intelligente” e “intransigente”, così è stata definita Christine Macel dai media francesi. E ne ha dato prova portando a fondo ogni decisione presa. Proviene da una famiglia legata all’arte: il padre architetto, la madre esperta di storia, il nonno pianista. All’età di soli 8 anni, la visita alle opere del Centre Pompidou le si rivela come un’epifania, che sancisce per sempre la sua unione con l’arte contemporanea. E allo stesso Pompidou fa il suo ingresso ventitré anni dopo -ormai una professionista di tutto punto- come responsabile del Dipartimento della “Creazione contemporanea e potenziale”, occupandosi di ricerca, acquisizioni e dello sviluppo delle collezioni: <<Quello che dico spesso è che è come dirigere un film di cui sono sceneggiatrice, produttrice e direttrice, il tutto assicurandosi che il marketing funzioni, oltre che, talvolta, la ricerca fondi e sponsor>> dice in un’intervista rilasciata a Le Figaro.

Per il Pompidou ha curato le mostre di artisti affermatissimi come Nan Golding, la fotografa che dagli anni Settanta immortala, come in un diario intimo e trasgressivo, i suoi amici e amanti, gli artisti, i travestiti, la droga e la rocambolesca nightlife americana, passando poi a Philippe Parreno, che indaga l’uso dei media e delle differenti narrazioni che da essi scaturiscono, e ancora Sophie Calle, il cui lavoro si basa sul ricostruire l’identità di persone, conosciute e non, in contesti inusuali.

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Ma il colpo grosso lo fa nel 2017, quando viene messa alla carica di direttrice della 57° Biennale di Venezia: #womanpower è l’hashtag comparso nel tweet che ne annunciava la nomina ufficiale. Pur non essendo la prima volta per una donna alla direzione (nel 2005 erano state Maria Corral e Rosa Martinez mentre nel 2011 era toccato a Bice Curiger), l’impatto è stato notevole.

<<Gli artisti hanno una responsabilità: possono intuire, meglio di altri, la direzione che prende il mondo. Per questo il loro ruolo deve essere centrale>>. È il più grande insegnamento lasciatoci da Christine Macel, che con la sua Biennale “Viva Arte Viva”, ha segnato un decisivo cambio di rotta rispetto alle precedenti edizioni restituendo totalmente la manifestazione agli artisti. <<La Biennale trova in Christine Macel una curatrice protesa a valorizzare il grande ruolo che gli artisti hanno nell’inventare i loro universi e nel riverberare generosa vitalità nel mondo che viviamo>> aveva affermato Paolo Baratta, presidente della manifestazione. E la riprova è che dei 120 artisti chiamati a partecipare, 103 sono arrivati in Laguna per la prima volta, molti di loro fuori dal mercato, o sconosciuti ai più. <<L'arte è sempre arte anche se non si vende. […] Per me non fa differenza occuparmi di un artista famoso o di uno sconosciuto, di un uomo o di una donna, quello che conta è che abbia qualcosa da dire.>> afferma la curatrice parigina in un’intervista per Repubblica. Una dichiarazione più che coraggiosa in tempi in cui, a livelli istituzionali così alti, arte contemporanea e finanza costituiscono un binomio praticamente inscindibile.

Dopo aver lanciato l’iniziativa “Tavola Aperta”, in cui il pubblico aveva la possibilità di sedersi a mangiare con alcuni degli artisti, ha curato il progetto “La mia biblioteca”, composta dai libri preferiti di ogni invitato. Tale è stato l’anelito della 57° Biennale, l’arte che rimodella radicalmente la realtà, abbattendo i muri che separano performance e vita quotidiana. Franz West dormiva nel Padiglione centrale ai Giardini, la coppia di artiste filippine Katherine Nuñez e Issay Rodriguez passava le giornate esercitandosi con l’uncinetto davanti ai visitatori e il brasiliano Ernesto Neto ha ospitato un gruppo di indios amazzonici per dei riti di guarigione.

Tra gli invitati, anche la ballerina 97enne Anna Halprin, che ha riproposto la sua “Planetary Dance”, un ballo su umanità, terapia, pace e cambiamento sociale, coinvolgendo un numero elevatissimo di partecipanti. <<Ho un amore duraturo per la danza e per il suo potere di insegnare, ispirare e trasformare>> scrive sul suo sito. L’artista americana ha scardinato le regole della danza tradizionale, dando più volte scandalo con le sue iniziative. Negli anni Sessanta formò la prima compagnia di danza composta da ballerini sia bianchi che neri, incentrandosi sulla tematica delle disuguaglianze sociali, mandando in scena degli artisti nudi e rischiando di essere arrestata. Fondò una compagnia composta da ballerini sieropositivi, e quando negli anni ’70 le fu diagnosticato il cancro, fu lei stessa ad usare la danza come parte del processo di guarigione.

Le ultime notizie dai “giardini di Venezia” riguardano la nomina dell’americano Ralph Rugoff come prossimo direttore. Si dice che sarà una manifestazione ancora una volta incentrata sugli artisti e sull’incontro con il pubblico. Ma per vederlo con i nostri occhi dovremo attendere l’11 maggio 2019, il luogo lo sapete già. Attendiamo quindi con (im)pazienza.