«Alcuni anni fa lessi in un blog americano la descrizione della sindrome dell'impostore. Mentre leggevo, mi dissi: "ma... sono io". Mi fece bene dare un nome a questa cosa e rendermi conto di non essere sola». Direttore d'azienda, animatrice della campagna di Emmanuel Macron, Axelle Tessandier è quello che si potrebbe definite una leader. Nel suo libro Une marcheuse en campagne (Ed. Albin Michel) e, ancora, durante l'ultimo Forum Marie Claire, a febbraio, intitolato Le donne e il denaro, ha raccontato di questa convinzione che l'accompagna da anni: «Va oltre la mancanza di fiducia in se stessi», dice lei. «È la paura che gli altri si rendano conto che non ci meritiamo di occupare il nostro posto di lavoro. Sentiamo di dovere tutto alla fortuna, agli eventi esterni. Si potrebbe pensare che,successo dopo successo, si acquisisca maggior fiducia in se stessi, in realtà, più si viene promossi, più si è esposti a questa sindrome e più è difficile gestirla».

Descritto per la prima volta nel 1978 dalle psicologhe americane Pauline Rose Clance e Suzanne Imes, il fenomeno dell'impostore - questa la definizione che diedero all'inizio le due esperte a questa condizione - non è una patologia. Piuttosto è un malessere riscontrato per la prima volta in donne in carriera che, appunto, nutrivano un persistente dubbio sulle loro capacità e vivevano con la costante paura di essere smascherate. Ribattezzata sindrome, come a sottolineare la sua gravità, ora questa condizione sta vivendo un vero e boom nel mercato della psicologia con tanto di test online, coach e libri. Da quando se ne parla apertamente, Axelle Tessandier è colpita dalla ricettività del pubblico su questo tema: «Durante una conferenza, chiesi quante persone soffrivano della sindrome dell'impostore. Si alzarono due o tre mani. Spiegai poi cosa fosse e riformulai la domanda. Si alzarono un sacco di mani».

«Tutti ne possono soffrire, conferma lo psicologo Kevin Chassangre - coautore, con Stacey Callahan, di due saggi sull'argomento Cessez de vous déprécier! e Le syndrome de l'imposteur (Ed. Dunot). Sia uomini sia donne chiedono una consulenza, ma le donne possono essere più sensibili a causa degli stereotipi sociali. E poi loro verbalizzano di più». Opinione condivisa da Axelle Tessandier: «Anche gli uomini vengono a parlarmene. Ma, a livello collettivo, penso che la sindrome riveli una società patriarcale in cui le donne sentono di dovere fare di più. Quando ci si presenta come un direttore d'azienda, temo che le persone si immaginino una multinazionale, mentre io sono sola. Odio il vocabolario della wonder woman. Sono come gli altri. E fa piacere sapere che gli altri hanno dei dubbi. Inoltre, vorrei che i vecchi protagonisti della politica soffrissero un po' anche loro della sindrome dell'impostore. In questo ambiente, interrogarsi su se stessi è ancora visto come una debolezza. È sempre stato detto loro che la maschera finisce per diventare quello che sei. Dobbiamo prestare attenzione alle maschere che indossiamo, perché finiscono per attaccarsi alla pelle».

La sindrome è caratterizzata da una profonda ambivalenza: la sofferenza di non coincidere con l'immagine positiva che diamo agli altri e la certezza di essere dalla parte della verità in un mondo di illusioni. Soli contro tutti. Secondo Kevin Chassangre, le origini risalirebbero, senza sorprenderci, all'infanzia, con una spaventosa varietà di cause. «Pauline Rose Clance ha identificato quattro situazioni familiari che possono favorirla», spiega. «Prima c'è il bambino perfetto, cresciuto nell'idea che possa fare qualunque cosa. Di fronte al fallimento, egli arriva alla conclusione che le speranze riposte in lui erano illusorie». Il secondo contesto origina dal confronto con i fratelli: «Quando diamo un'etichetta a un bambino - per esempio "l'atleta", "il socievole" o "quello forte in matematica" - a questo non sembra legittimo riuscire (anche) nel campo di suo fratello o di sua sorella». Terzo contesto: mancanza di rinforzi - «bambini che, nonostante i loro successi, non sono lodati abbastanza». E infine, le "abilità atipiche": un bambino che è l'unico della famiglia a ricevere un'istruzione superiore, per esempio, potrebbe percepire il suo successo come un tradimento. «La moltitudine di questi fattori spiega perché la sindrome dell'impostore è così comune». Ma queste quattro situazioni hanno una cosa in comune: l'accettazione condizionata - per essere accettato, il bambino deve soddisfare tale o tal altro criterio. E al di là della cerchia familiare, continua Kevin Chassangre, «la nostra società tende a insegnare ai bambini che si è delle brave persone se si ha successo, si è cattive persone se si fallisce».

Per superare questa sindrome, si dovrebbe essere in grado di sviluppare un'accettazione incondizionata di sé. Accettarsi per quello che si è a prescindere dalla performance. «È una nozione ereditata dallo Stoicismo secondo il quale ogni essere umano è fondamentalmente imperfetto e fallibile. Non significa essere rassegnati, ma accettare il fallimento e cercare di migliorare». Ci si domanda poi sul grande spazio dato ai test, ai grafici e alle valutazioni criptate: è così facile sfuggire alla logica della performance e della quantificazione. Kevin Chassangre sta anche creando un sito di coaching a distanza. E per concludere: «Viviamo con la sindrome dell'impostore, non ce ne liberiamo mai completamente». Volere fare meglio e più degli altri: la sindrome fornisce un eccellente carburante per avere successo e dipendenti altamente preparati.

In realtà, questa mania di perfezionismo scatena due meccanismi controproducenti. Da un lato, porta al superlavoro, perché il lavoro non è mai considerato soddisfacente. Dall'altro, crea gravi casi di procrastinazione, secondo una logica di implacabile fallimento: essendo in ritardo, la mole di lavoro aumenta. La difficoltà di portare tutto a termine è allora sentita come prova di incompetenza.

Karine Lefas, consulente nelle risorse umane, affronta il problema in modo pragmatico: «Non sono nella posizione giusta per cui un candidato venga a dirmi che ha questo tipo di dubbi. Ma spesso do un semplice consiglio: fate domande come: "Cosa vi aspettate da me?". Il problema può venire anche da un superiore autoritario che non vi dà, o non vi dà abbastanza, gratificazioni e vi lascia soli con richieste sproporzionate». Lefas sottolinea anche il possibile legame tra l'alto livello di esigenza personale e la difficoltà ad accettare riconoscimenti e complimenti.

Gli autodidatti conoscono molto bene il fenomeno - non a caso si parla anche di sindrome dell'autodidatta - come se una mancanza di riconoscimenti all'inizio non possa essere mai essere completamente colmata. Marie racconta di quando mosse i suoi primi passi nel mondo del marketing: «Lavoravo dieci volte più degli altri. Ma quando mi ritrovai, a 23 anni, a fare una presentazione davanti ai dirigenti di una grande marca di birra, mi sembrò di non meritare quel posto. Alcuni anni dopo, seguii un corso di formazione per cambiare lavoro. Quando mi diedero la certificazione, fui quasi delusa. Pensavo che dovesse essere davvero insignificante per averlo ottenuto io. Come diceva Groucho Marx: «Non vorrei mai fare parte di un club che mi accetti come membro». Non essere soddisfatto di ciò che si è, sfuggire alla mediocrità: nobile ambizione o peccato di orgoglio?

Lo psicanalista Roland Gori, autore di La fabrique des imposteurs (Ed. Babel), critica la terminologia stessa della sindrome dell'impostore: «Non sono favorevole a questa patologizzazione del comportamento umano. Penso che dobbiamo parlare della sensazione di impostura, che è l'antidoto alla vera impostura. Dal momento che vi chiedete se siete un impostore, provate un desiderio di sincerità che non è tipico dell'impostore. È una domanda fondamentale sulla differenza tra quello che appariamo e quello che in realtà siamo. A mio parere, il libro più bello sull'argomento è La chute di Albert Camus, in cui l'ex avvocato Jean-Baptiste Clamence racconta come la grande considerazione che aveva di sé è crollata una sera in cui, tornando a casa, sentì una donna che chiedeva aiuto e non intervenne. Continua, quindi, a sentire questa voce che gli chiede se sia davvero bravo come crede di essere».

Questa preoccupazione deriva dal nostro status di animale sociale: «Siamo tutti più o meno coinvolti nelle strategie dell'impostura, nei rituali sociali, nella gentilezza e nella cortesia». Piuttosto che una sindrome, Roland Gori preferisce definire l'impostura come un sintomo: «L'impostore è una spugna dei valori che lo circondano, è il conformista per antonomasia, come Leonard Zelig, nel film di Woody Allen, che ingrassa con i grassi, perde peso con i magri, arrossisce con i timidi e diventa un nazista con i nazisti». Ogni epoca ha i propri impostori: Tartuffe sfrutta l'ipocrisia religiosa, Bernard Madoff l'avidità e il massacro del Bataclan ha creato la sua quota di false vittime.

«Il mio libro non dice che siamo tutti impostori, ma che non possiamo discolpare l'ambiente sociale delle strategie dell'impostura. Oggi noi viviamo in una società dove protagonisti sono la spettacolarizzazione, i brand e le fake news. In una società molto normativa come la nostra, le persone sono invitate a imbrogliare per sopravvivere. I nuovi sistemi di valutazione sono così svalutanti che ci spingono a essere dei falsari. All'università, un ricercatore è costretto a imbrogliare in modo che i suoi file arrivino sotto gli occhi degli esperti. Chiunque voglia essere più vero di quanto la società si aspetti da lui inevitabilmente soffre». La paura di essere scoperti potrebbe essere legata al desiderio di essere scoperti: come una speranza, in cuor suo, di essere una persona autentica, genuina.

DaMarie Claire FR