A Carpi è un sabato di maggio già vestito d’estate. Aspetto d’incontrare *Fabio Genovesi, tra i protagonisti della Festa del Racconto. “Ci vediamo in piazza per l’intervista” gli scrivo, senza sapere che è la più grande d’Italia, e trovarsi diventa difficile quanto fare un grande slam a bridge. Lo vedo seduto sui gradini di Palazzo dei Pio, dove poco dopo parlerà davanti a chi, sfidando il sole, è già pronto ad ascoltarlo. La sua figura sottile tiene per mano dei modi così gentili da ricordarmi le attenzioni che usavano un tempo, le stesse di certi personaggi conosciuti tra le righe dei suoi libri. Mentre dice di sé è impossibile disegnarlo usando i soliti colori, con ogni parola m’insegna una sfumatura nuova.

Fabio, quando scrivi, ci sono delle circostanze - emotive o legate allo spazio circostante - che ti condizionano?
Sì, e l’ho capito col tempo. Sono decisamente meteoropatico, detesto il buio, il freddo. Se uno guardasse la mia vita d’inverno, avrebbe l’impressione che non faccio altro che sprecarla: passeggio, leggo tante cose, guardo dei film. E scrivo pochissimo. Quando però arriva la primavera fiorisco anch’io, e mi vengono così tante suggestioni in mente da non riuscire a contenerle. Ora, ad esempio, non faccio altro che collezionare idee. Sopra i 30 gradi scrivo bene, diciamo così.

Che musica ascolti?
Metal, quasi sempre. Quando però devo scrivere romanzi corali con la voce di un determinato personaggio, cerco di ascoltare la stessa musica che ascolterebbe lui. Mi piace l’idea di mettere i piedi in un mondo diverso dal mio. D’estate però ci sono gli uccelli che cantano in giardino, e mi basta questo. L’importante è stare in mezzo ai suoni.

L’attitudine a raccontare storie è insita in noi, così come la curiosità. Ma c’è qualcosa, o qualcuno, che l’alimenta.
È vero. Un po’ nasci ma anche cresci con una certa propensione. Sono un figlio unico e un solitario assoluto, non ho bambini e nemmeno nipoti. Ho però quelli acquisiti, di parenti e amici, e mi accorgo della differenza sostanziale che si crea nel momento in cui tu gli racconti delle storie. Ti faccio un esempio: se un bambino chiede ai genitori come mai le rondini, che adesso volano nel cielo, quest’inverno non c’erano, devi spiegargli la magia del loro tornare sempre nello stesso posto, con una bussola piazzata chissà dove. Se invece rispondi semplicemente “sono tornate” e gli metti un Ipad tra le mani, non hai certo fatto un bel lavoro. Ho avuto, fin da piccolo, la fortuna di avere intorno dei grandi raccontatori di storie, che non sempre lo facevano per il mio bene, ma ogni tanto anche solo per il fatto di vantarsi di qualcosa. Resta il fatto che io crescevo in mezzo a questa meraviglia. Anche adesso, quando c’è qualcosa che non voglio fare, gli amici mi attirano dicendomi “vieni, c’è una persona con una storia meravigliosa”. È così, le storie per me sono l’attrattiva più potente. È un amore che ho fin da piccolo, sai che noia senza.

Nei tuoi personaggi metti insieme luoghi già visti o aspetti di persone che ti hanno colpito?
Ci sono tante cose della realtà che catturano la mia attenzione, dai posti, alle persone. Alcune volte capita di riportarne alcuni nelle mie pagine, altre invece mi trovo ad inventare. In ogni caso sono dei mattoncini di realtà e finzione, che messi insieme formano il muro della narrazione.

Parliamo della Versilia, tra le righe di tanti tuoi libri. Cambiano le tue abitudini in base alla stagione?
Non ho abitudini particolari, come andare al bar. L’orto è il mio godimento massimo, in ogni stagione. L’unica cosa di cui mi privo in estate è il mare, che non mi faccio mancare d’inverno. C’è un mio amico che ha uno stabilimento balneare, ho le chiavi della cabina e quando ho voglia scrivo, sistemando il tavolino sulla spiaggia. D’estate non posso farlo, o comunque devo aspettare la fine del pomeriggio, quando sono tutti a fare l’aperitivo. In genere esco di notte, vado a fare delle lunghe passeggiate da solo. E sono certo di non trovare nessuno.

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Courtesy Photo Cesare Sforza

Cosa ti ha spinto a mostrare il lato della Versilia meno popolare?
L’amore per la mia terra. “Ogni storia è una storia d’amore” come scriveva Mc Liam Wilson, e in questo ci credo fortemente. “Morte dei Marmi”, è un canto di odio per qualcosa che sciupa qualcos’altro che amo. È tutto amore, quindi.

Toscana a parte, quali sono le località misconosciute dell'Italia che ti hanno incuriosito o di cui scriveresti.
Senz’altro la Puglia, che è la mia seconda casa. E poi la campagna del viterbese, piena di necropoli etrusche, e il Veneto. Basta che siano posti piccoli. Anche facendo riferimento a libri e film, quando sono ambientati in grandi centri, finisce che mi annoio da morire. La bellezza della narrativa sta nelle piccole cose, anzi, soprattutto lì.

Da ex bambino che in estate si rintanava nel capannone degli attrezzi per permettere alla famiglia di affittare casa ai turisti, come vedevi e vedi il turismo nella tua terra? C'è stata un'evoluzione/involuzione?
Quella tendenza moderna del mettere ogni cosa a disposizione, senza farti cercare niente, non porta a nulla di buono. Per me non è turismo, è solo la morte della scoperta. La vacanza diventa organizzata e scadenzata come fosse la vita che normalmente si fa in ufficio. Io invece parto sempre con due bagagli, uno di vestiti leggeri e l’altro di cose più pesanti, poi mentre guido mi lascio portare dall’istinto. Mi piace molto improvvisare. Nella vita ti succedono cose meravigliose, soprattutto quando sono fuori programma. L’imprevisto non è solo una gomma che si buca, è anche la scoperta di qualcosa che non ti aspettavi potesse accadere.

Quanto è influenzata la tua scrittura dal gonzo journalism di Hunter Thompson? Come si "mettono le mani" su un autore-colosso del genere?
Sento una profonda connessione astrale con quell’uomo. Tanto di lui lo capisco, soprattutto quello staccarsi dal rigore formale per leggere le cose con poca lucidità. Penso sia giusto che una persona, ogni tanto, esca da quello che è. Paura e disgusto a Las Vegas inizia con il raccontare una gara di moto nel deserto del Nevada, per poi arrivare a tutt’altro, che finisce per appassionarti ancora di più. Scrivere è un innamorarsi inaspettato di quello che succede intorno. La mia più grande gioia è stata tradurre il suo ultimo libro. Mi sono preparato leggendo e rileggendo a voce alta i suoi testi, sia in inglese che in italiano. Ne sono uscito soddisfatto.

Come ci si approccia alla traduzione impersonale di un autore così votato al soggettivismo?
La passione. Mi avvicino a ogni cosa per amore, quello che non mi piace non riesco a farlo. Anche in questo caso, non ho percepito alcun tipo di timore: se ti ascolti e sei felice va bene così, ai lettori arriva.

Ci lasci con un mini itinerario della tua "Versilia off" dove rifugiarci questo autunno?
Il mare prima del tramonto, e non perché sia un romantico. Le Alpi Apuane, con quei bar che sembrano usciti dagli anni ’60. Poi Vittoria Apuana, e il negozio di alimentari dove faccio la spesa, con la stessa bilancia che usavano per pesarmi quando ero piccolo. Dappertutto ci sono posti interessanti, basta saperli vedere.

Progetti futuri?
Sto lavorando a diverse cose, ho la testa che mi scoppia d’idee. Ci sarà un altro romanzo, mi piacerebbe uscire dalla narrativa. Sento che è proprio adesso il momento in cui tutto è possibile. Come quando finisce una storia d’amore: comprendo la tristezza, ma mi accorgo al contempo di quella prospettiva bella che accompagna l’inizio di qualcosa di nuovo.

*Fabio Genovesi vince nel 2015 la seconda edizione del Premio Strega Giovani con il romanzo “Chi manda le onde” entrando nella cinquina dei finalisti del Premio Strega. Nel 2008 pubblica “Versilia rock city”, tre anni dopo “Esche vive”, e infine “Il mare dove non si tocca”, nel 2017.