Ma altri mesi passarono senza che arrivasse né una fidanzata, né la gloria. Pigliavo la melatonina per cercare di dormire. Lo facevo giusto per buona coscienza, come si dice, per dimostrarmi che le provavo tutte. Nevicava sempre e io trovavo sempre ottimi motivi per piangere. Mi ero iscritto in una palestra fuori Torino, a Moncalieri, perché avevo letto che era la più esclusiva del comune e si sa mai che facessi arrapare una signora della Torino bene, di annullarmi in un abbraccio di carne frolla e botulino. Durante il tragitto in macchina accendevo la radio e cantavo e urlavo e sbraitavo e davo i pugni alla cappotta e catturavo lo sguardo, con occhi e bocca socchiusa, di tutte le automobiliste che incrociavo – nell’abitacolo siamo tutti più belle, e più coraggiosi. Riuscivo a immedesimarmi in ogni canzone. Verso Natale piansi ascoltando All I want for Christmas is you di Mariah Carey, perché delle amiche di Silvia che conoscevo a stento, anni prima, le avevano regalato un carillon a forma di slitta che riproduceva il motivetto. Quando la commessa del banco salumi del Carrefour in via Cernaia, dopo avermi affettato tre etti di mortadella, mi chiese se volevo andare con lei al bowling, finsi di essermi scordato di comprare il bagnoschiuma, “vado subito sennò poi mi dimentico ancora” dissi, e, guadagnato il corridoio dei detergenti, frignai con la testa infilata nello scaffale della schiuma da barba. Alla scuola Oliver Twist scappai in bagno con la faccia abbassata sulle mie scarpe quando ci fecero vedere un cartone animato – “spiegava bene” ci dicevano, “come costruire narrativamente un antagonista” – che io avevo guardato una sera di nebbia con Silvia. E piangere mi piaceva, era un orgasmo laringeo, l’autocommiserazione come masturbazione pura, solipsistica: non devi manco pensare a un’altra, solo a te stesso.

Alla Twist si degnò di tenerci un paio di lezioni Stefano Rispoli in persona – adesso portava sempre e solo un maglioncino verde scollato a v, sopra una maglietta da notte bianca. C’avevo parlato solo l’anno prima, all’inaugurazione dell’anno scolastico, chiedendogli se aver studiato filosofia era stato per lui un vantaggio. Ovviamente mi rispose che era stato un vantaggio, che domande, che se uno è bravo è bravo, non è che scriva peggio perché ha studiato Anassimene, che domande. “Ho capito, ti ringrazio” gli dissi e un ragazzo che faceva le riprese durante le conferenze mi assicurò che ero un matto o forse un fenomeno a dare del “tu” al direttore perché era l’unico a cui tutti, alla Twist, davano del “Lei” – evitai di spiegargli di quanto Signorrispoli sia più cacofonico di Signoralabarda. E adesso, durante quelle poche lezioni, Rispoli analizzava dei lunghissimi periodi di Proust in cui il lettore non perdeva comunque il filo. “Vedete l’artigianalità? Ecco, – disse – quella roba lì…” e io non ascoltai più perché ebbi il terribile sospetto che l’espressione “quella roba lì”, utilizzata con estrema frequenza da tutto l’ambiente e da me detestata, fosse una moda originata proprio dal sommo Stefano Rispoli. Un bravo scrittore non alza mai il tono, parla come al bar, e non ha paura di utilizzare espressioni apparentemente sciatte, ma in realtà oneste, dirette, da brava gente, da letterati – questo era lo stesso iperbolico snobismo delle scarpe sformate, del maglioncino verde su maglia da notte, delle sigarette rollate, delle barbe incolte e, soprattutto, del rifiuto di frequentare i locali dove io potevo trovare ragazze depilate e in tacchi, branco di stronzi.

Depilata lo era Katia, una russa di vent’anni con cui andai a letto in un due stelle durante un altro sabato a Milano e con la quale presi a conversare su Skype – lei il giorno dopo era tornata a Mosca. Mi dissi che così allenavo il russo e l’inglese, si sa mai cosa finisci a fare nella vita, “I love you” dissi a lei dopo le prime tre ore di incontri bidimensionali.

In marzo, il marzo in cui l’Enciclopedia Britannica, a duecentoquarantaquattro anni dalla prima pubblicazione, sarebbe diventata disponibile solo on-line, andai a Mosca a trovare Katia. Era molto gentile, mi preparava ogni mattina una buona colazione a base di tè e panini al burro e voleva toccassimo insieme il naso di Avram. Avram era il cane di bronzo di una stazione metro di Mosca gremita dalle statue del realismo socialista volute da Stalin e che, secondo le parole della mia Katia, “portava fortuna all’amore” – tanti dovevano pensare la stessa cosa perché il tartufo del povero Avram era completamente scrostato. Credo di non essere mai stato vicino all’omicidio come in quei sei giorni. Per cercare rifugio da quella cretina che si lamentava perché era l’unica non-ebrea tra le sue amiche e i genitori non avevano la casa sul Mar Nero, provavo a leggere i dattiloscritti da recensire per Biscione – avevo appena iniziato – ma lei saltava sul divano e infilava quel suo muso da topo tra me e le pagine, “prendiamo il tè?” diceva. Allora, per isolarmi da quella imbecille che imitava il mio italiano esagerando il suono, effettivamente cialtrone, delle nostre onnipresenti piane – “amòòòre”, “ciààào bèèèlla” “fancùùùlo”, spaghèèètti” – mi chiudevo con due giri di chiave nel cesso, dove c’era una splendida vasca coi rubinetti d’ottone. Potevo rimanere in ammollo nell’acqua bollente anche un’ora, mentre fuori infuriava lo stesso inverno che aveva fottuto Hitler e Napoleone e centinaia di migliaia di barboni. Ma poi quella piccola troia bussava “amòòòòre, what are you doing?”, e allora io mi immaginavo quel suo corpo minuto e rachitico precipitare dal dodicesimo piano dove quei bastardi dei suoi genitori non-ebrei le avevano comprato un costosissimo appartamentino piccolo borghese e disintegrarsi sul ghiaccio indoeuropeo. Appena salito sul taxi per l’aeroporto di Mosca cambiai il suo nome, sul mio cellulare, da Katia in NON RISPONDERE.

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46: Per la depressione dopo una storia finita mi sono ridotto a limonare una statua in via Saffi

45: Lettera d'addio per lei: l'ultima spiaggia degli sconfitti

44:Tu che dici: non sono geloso. Balle! La vita prima o poi ti farà ricredere

43: Come lasciare qualcuno ovvero quando la persona che amavi diventa il tuo peggior nemico

42: Chi è nato negli anni '80 come può credere davvero che qualcosa migliori?