Se avete lavorato, lavorate o sognate di lavorare per una rivista rivolta a un pubblico femminile, la serie tv The Bold Type potrebbe essere la produzione confezionata apposta per voi. Liberamente ispirata alle vicende di Joanna Coles, ex editor di Cosmopolitan e oggi Chief Content Officer (ossia capo dei contenuti) di Hearst Magazine, lo show prodotto dall’emittente statunitense Freeform - canale di proprietà Disney pensato per un pubblico tra i quattordici e i trentacinque anni - è una vera hit oltreoceano dove va in onda la seconda stagione di The Bold Type (da noi la prima è stata recentemente trasmessa da Premium Stories). La premessa è molto semplice: Kat Edison (Aisha Dee), Sutton Brady (Meghann Fahy) e Jane Sloan (Katie Stevens) sono tutte e tre impiegate presso la rivista di finzione Scarlet Magazine e sono alle prese con i problemi abbastanza tipici degli ultraventenni: amore, lavoro, amicizia. Soprattutto lavoro, a dire il vero. Non è un caso che lo show possa essere percepito come un Sex and the City aggiornato per le nuove generazioni, in una società dove molti argomenti - anche grazie alle imprese di Carrie Bradshaw e compagnia - non sono più tabù da smontare, ma temi complessi da esplorare senza riduzioni.

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Partiamo da qui: se avete più di 30 anni è possibile che storciate il naso di fronte ad alcune cifre della serie The Bold Type. La colonna sonora asfissiante, la produzione non esattamente alleata della sospensione dell’incredulità e la formula già vista - basata su tre amiche diverse che trovano sempre un modo di intersecarsi e credono all’amicizia più che a ogni altra cosa – possono contribuire alla percezione di uno show destinato a persone giovani. Beh, del resto è vero, e non c’è nulla di male. Anzi. Il fatto che abbiate già superato alcuni ostacoli identitari, sappiate chi siete e generalmente abbiate le idee più chiare su cosa volete fare nella vita, però, non impedisce di apprezzare gran parte della serie. Si diceva: i tabù di ieri sono gli strumenti di analisi di oggi. Non c'è "invecchiamento", c'è "evoluzione". Per esempio: il punto non è più discutere di vibratori, è capire come sono percepiti da una donna di religione islamica, ad esempio. Il punto non è scrivere una rubrica di sesso, ma trasformare quella rubrica di sesso in qualcosa di profondo, di impegnato, di utile al lettore e non soltanto all’ego dello scrittore (con Carrie, diciamocelo, era spesso quest’ultimo il caso).

La concezione del lavoro di giornalista in The Bold Type 2 (e 1) è molto interessante, infatti. Difficile immaginare una professionista del settore che non sogni il gigantesco impatto dei propri articoli online o sulla carta, ma tocca essere realisti. Certo, i pezzi postati sui social network generano discussione, offrono spunti e si prestano spesso a essere analizzati come accade nella serie, ma un mondo nel quale poche righe possano spostare l’intera opinione pubblica resta generalmente poco credibile. Tocca quindi addentrarsi con cautela in alcune zone della serie di Sarah Watson, senza lasciarsi scoraggiare al punto da dimenticare che qualcosa di buono c’è, eccome. Un punto di partenza è proprio la società ideale nella quale le parole delle giovani donne contano sul serio. Sarà un sogno o un’utopia ma la messa in scena di un’utopia può avere conseguenze reali in termini di autostima e di speranza per chi guarda.

È il lavoro il nucleo caldo della trama di The Bold Type. Che ruota attorno alle vite delle tre protagoniste, decise a imprimere un marchio sul mondo attraverso la loro intelligenza e al loro impegno. Encomiabile, empowering, interessante. Lo show pecca (agli occhi della spettatrice più smaliziata) di pinkwashing OVVERO Scarlet Magazine è un giornale "femminista". Ci viene ricordato spesso nel corso della sere, e la parola, forse, perde un po’ di rilevanza. Tra dialoghi didascalici e intrecci che riproducono situazioni di disparità e ingiustizia in modo così patinato, che fanno poco più che aprire la strada a un dibattito costruttivo.

Motivi per amare The Bold Type? MOLTI. In uno scenario internazionale nel quale l’esigenza di una buona rappresentazione di genere resta di assoluta importanza per l’inclusività e la parità sul lavoro, lo show di Sarah Watson segna una piccola (o grande) vittoria per il candore, la chiarezza, talvolta persino la temerarietà. Rimane fondamentale dire - attraverso la sceneggiatura - le cose così come vanno dette, senza giri di parole e mezzi termini, tornando forse a sceneggiature più "pure" anche a rischio di eccessiva semplificazione. Questo fa la serie che vede protagoniste Kat, Sutton e Jane: spara a zero con una naturalezza che collima con l’ingenuità, ma presta un servizio utile a chiunque abbia bisogno di una ratifica per combattere la sua battaglia e divenire chi è.