I direttori delle riviste cominciarono a mandarmi in giro per delle marchette. Un'azienda presentava da qualche parte nel mondo un nuovo prodotto, e tu stavi a sentire, annuivi, dicevi che bello, mangiavi moltissimo, tornavi in Italia, scrivevi un pezzo da una pagina e rotti in cui raccontavi che quell’azienda era una figata e quello specifico prodotto indispensabile per l’instaurazione del paradiso terrestre in un futuro non troppo remoto, e ti pigliavi qualche soldo.

La prima volta andai a Galway, nell’Irlanda del Sud, dove c’era un paesino medievale e il quartier generale di quella ditta che produce le lenti fotocromatiche. Soprattutto pubblicai su Facebook autoscatti davanti a chiese gotiche e pub con insegne di legno dalle scritte in gaelico, in modo che Silvia e i miei conoscenti di Ferrara per cui la mia sconfitta era stata spassosa vedessero che razza di reporter d’assalto ero diventato. Il pr dell’agenzia di comunicazioni che aveva organizzato il mio viaggio m’aveva preso un biglietto con scalo a Parigi, solo che avevo giusto trenta minuti per la coincidenza, scoprii, e dovetti correre per l’immenso Charles de Gaulle con la cintura in mano e le braghe calanti – avevo dovuto passare di nuovo per il metal detector – e riuscii a prendere il volo per Milano all’ultimo, grondante di sudore, dopo aver perso il portafogli. Fu un dono del cielo perché, quando nei mesi successivi incontravo qualche giornalista affermato, potevo sfoderare l’argomento di quanto fosse cialtrone quel pr, “lo sanno tutti che il De Gaulle è una città” dicevo. Andai in Germania per provare un velivolo acrobatico e vomitai nell’abitacolo, andai al Casinò di Ibiza per un torneo di Poker sponsorizzato da una marca di whiskey, in Francia per i ferri da stiro per scapoli, in Sicilia per il nuovo marzapane ipocalorico, in Istria per vedere come un’azienda ungherese riciclava le reti da pesca incagliate nei fondali in ombrelloni da spiaggia, visitai fabbriche dei cioccolatini in Piemonte e della birra in Alto Adige.

A ottobre – mentre l’ambasciatore statunitense in Libia faceva boom – mi mandarono a San Martino di Castrozza, dove andavo a sciare da piccolo, per provare una nuova auto elettrica. In quel periodo mi ero impuntato con My way di Sinatra: raccontava l’orgoglio al cospetto della morte di un personaggio che ha percorso la propria strada, propria e basta, per quanto dolore o fallimenti questo abbia comportato – quello che avevo fatto io, mi ripetevo. Ma quando dico che mi ero impuntato, significa che m’ero impuntato per davvero: la ascoltavo decine di volte al giorno: sotto la doccia, prima di dormire e appena sveglio, dallo stereo, dall’autoradio. In quella macchina elettrica l’autoradio non c’era e allora l’ascoltavo dal cellulare appoggiato sulla seduta del morto e piangevo risalendo i tornanti.

La sera cenammo nel Grand Hotel des Alpes, io ero accomodato di fianco a un giornalista che era soprattutto un conduttore di televendite, mi rivelò, e che quindi aveva appena scritto un libro in cui spiegava come “condurre la propria vita” grazie a quelle tecniche di convincimento tipiche degli spot promozionali, “la postura dei pollici è l’abicì”, disse. Mia mamma, casualmente, era nella baita di sua sorella, lì a San Martino, baita che non vedevo da vent’anni. Tra la portata principale e i dessert feci un salto a trovarla – era alla fine del sentiero con le fontanelle. Lungo il tragitto ascoltai tre volte e mezza My way. Appena entrai in quella casa con le travi di legno e la stufa in ferro battuto e quell’odore di cherosene, appena vidi mia mamma con una teglia di canederli fumanti in mano, chissà perché, scoppiai a piangere a dirotto e non riuscivo più a fermarmi nonostante le sue coccole. “Vedrai, – ripeteva – vedrai che sarai felice”.

Ma dovevo tornare a cena e, mentre i camerieri coi guanti bianchi ci servivano il digestivo, assicurai al presentatore che quegli occhi gonfi e rossi come lamponi che vedeva erano frutto della mia rarissima allergia a una particolare forma di graminacee sempre verdi che si manifestava anche in ottobre.

“È questione di target biologici. – scandì affettando lo strudel – Tu puoi condurre perfino le tue difese autoimmuni se impari a controllare la comunicazione non verbale.”

Tornato da lì, in fin dei conti, a pensarci bene, di Silvia non me ne fregava più un cazzo. Ora, capii, il mio disagio era dovuto soltanto al fatto di non essere uno scrittore immortale. Cucciniello, maestro alla scuola di scrittura Oliver Twist, durante l’ultimo seminario che c’aveva tenuto, mi aveva detto che se scrivendo articoli e interviste mi sentivo appagato, allora quello era il segno che la letteratura non faceva al caso mio. “Come lo capisci se devi continuare? Vediamo. – si massaggiava il mento barbuto – Deve essere una fredda ossessione”.

“Perché fredda?”

“Sennò dai di matto”.

Quei grandi figli di buona donna della casa editrice Nautilus mi avevano alla fine richiamato per dirmi che se volevo pubblicare dovevo dare il mio contributo all’impresa con l’acquisto di cento copie per un totale di mille euro. Mi incazzai come una vipera, iniziai a balbettare per telefono, “allora non credete in me”, ripetevo, ma quando Mirko Piombina, l'editore, mi disse che sì, credeva in me, ma che era la prassi chiedere questo genere di supporto all’autore per una piccola casa editrice – “crediamo in te” ripeté – accettai.

CAPITOLI PRECEDENTI:

47: La bellezza di piangere: l'autocommiserazione come masturbazione pura

46: Per la depressione dopo una storia finita mi sono ridotto a limonare una statua in via Saffi

45: Lettera d'addio per lei: l'ultima spiaggia degli sconfitti

44:Tu che dici: non sono geloso. Balle! La vita prima o poi ti farà ricredere

43: Come lasciare qualcuno ovvero quando la persona che amavi diventa il tuo peggior nemico

42: Chi è nato negli anni '80 come può credere davvero che qualcosa migliori?