Già prima dell’estate mi ero trasferito a Milano. Mentre aspettavo che Nautilus mi mandasse indietro le bozze con le correzioni – passò un anno – misi alla prova la mia nuova maturità sentimentale con altri rapporti. Ora che non soffrivo più potevo finalmente trovare qualcuna – proprio perché non la cercavo – adatta a me, qualcuna con cui stare ancora meglio di come già stavo, non qualcuna per mezzo della quale colmare un vuoto – la lezioncina che m’avevano impartito i miei genitori in quei mesi.

Così, senza cercarla, la primavera successiva trovai Lucia. Aveva quattro anni in più di me, aveva lavorato a Londra dal 2001 al 2012 come investitrice finanziaria, aveva guadagnato così tanto da potersi permettere l’acquisto di un trilocale a Chelsea e ora la banca d’affari per cui lavorava, la Nexus, l’aveva trasferita a Milano. Città che lei, abituata all’apertura mentale e ai club e alle casette col seminterrato e al melting pot di Londra, detestava. Sul suo comodino notai un boccettino di Minoxidil perché i ritmi lavorativi, oltre ad averle bloccato il ciclo mestruale da diciotto mesi, come mi aveva raccontato, evidentemente le facevano cadere i capelli a ciuffi. Ma aveva degli enormi occhi azzurri e magari, chissà, un giorno io sarei stato in casa a scribacchiare il romanzo del millennio mentre lei sarebbe andata in ufficio a investire in diamanti della Sierra Leone i soldi di un mafioso della Triade cinese, perdendo capelli e guadagnando milioni. Tuttavia, c’erano due ordini di problemi. Prima di tutto non me la dava, perché diceva di non essere “brava”, che si vergognava. E diceva anche che, per quanto il cattolicesimo della sua famiglia genovese fosse una cosa da retrogradi, fare l’amore se non con il marito, almeno col fidanzato ufficiale, santo cielo, era una questione di eleganza. Secondo: la volta in cui trascorsi un fine settimana con lei, mi resi conto che non eravamo compatibili, come si dice. Scendemmo a Genova in treno e poi ci spostammo per la riviera con la sua Alfa. Su uno sdraio di Chiavari si ricordò di colpo che un suo ex collega danese, tal Kaspar, sarebbe arrivato all’aeroporto di Genova dopo mezz’ora. Quindi mi lasciò in spiaggia e guidò così veloce da schiantarsi contro un distributore alla prima rotonda e poi io dovetti accompagnarla in taxi nell’unico rivenditore di auto aperto quella domenica perché, scoprii, l’Alfa accartocciata era di suo padre e lei voleva fargli trovare un’auto nuova sotto la loro casa di Voltri e le chiavi nella buchetta – del povero Kaspar non seppi mai più nulla. Mentre tornavamo in treno il padre la chiamò chiedendole se sapeva perché la loro Alfa era diventata una Renault, al che lei scoppiò in un risata isterica che continuò finché non svenne – o finse di svenire. Arrivati nel suo appartamento di Brera, appena appoggiate le valigie sul pianerottolo, mi mise una mano nelle mutande perché, spiegò, non ce la faceva proprio più a resistere, che bastava non la baciassi là sotto perché non si depilava da anni là sotto, ma che mi voleva voleva voleva voleva. Mi ebbe, poi le dissi che prima di rivederla desideravo chiarisse un paio di cose con se stessa, che forse era un pochino confusa, e lei diceva che no, adesso, di colpo, grazie a me, era cambiata, rinata, redenta, ma io preferii non metterla alla prova e la convinsi che nascondevo un orribile segreto che non potevo confessarle, mai e poi mai, almeno fino al 18 febbraio 2015 – mi suonava bene – e che quindi era meglio perdersi di vista.

Arrivarono le bozze, il primo lavoro di editing era stato miserrimo (avevano corretto “tocciare” con “pucciare”, cose così, e nient’altro), quindi mi inferocii, poi mi passò. Pubblicare, pubblicare, dovevo comunque pubblicare, a tutti i costi, finalmente, subito, pubblicare.

Poi Virginia, la ragazza che frequentavo in quei mesi, se Dio vuole, era una persona normale. Milanese da n generazioni – una di quelle che si rifiutano di usare i mezzi pubblici e giurano di non avere mai visto loro padre se non in camicia – giornalista brillante, priva di nevrosi. Troppo priva di nevrosi, così tanto priva di nevrosi che mi aveva proibito di parlare in sua presenza di depressione o panico o Dio o Diavolo o Abisso o Assurdo, e quindi, il più delle volte, non sapevo che dire. Avevo paura ogni mia manifestazione di esistenza fosse valutata patologica, nonché provinciale. Provai simpatia per il mostro di Milwaukee. Una sera faceva molto caldo, anche se ormai era fine settembre e a casa sua, dopo cena, le chiesi se potevo levarmi i jeans – scopavamo già da mesi e lei era in canottiera o poco più.

“Se ti sembra carino” disse rigirandosi l’anello d’argento che portava nel medio.

“Sì, insomma, sai, ho caldo” continuai.

“Fa pure come credi” forzò un sorriso.

Mi riallacciai la cintura e la salutai, lei non mi trattenne e quello fu il modo in cui ci lasciammo.

CAPITOLI PRECEDENTI:

48: La rivendicazione della propria unicità come ultimo rifugio dei falliti. Ovvero My way di Sinatra

47: La bellezza di piangere: l'autocommiserazione come masturbazione pura

46: Per la depressione dopo una storia finita mi sono ridotto a limonare una statua in via Saffi

45: Lettera d'addio per lei: l'ultima spiaggia degli sconfitti

44:Tu che dici: non sono geloso. Balle! La vita prima o poi ti farà ricredere

43: Come lasciare qualcuno ovvero quando la persona che amavi diventa il tuo peggior nemico

42: Chi è nato negli anni '80 come può credere davvero che qualcosa migliori?