KALIA BEACH – Il sole tramonta presto a metà ottobre nel punto più basso della Terra, sulle rive settentrionali del Mar Morto. Solo allora la temperatura scende sotto gli oltre 30° C del giorno, fino ai più miti 25° C della sera. È questo il momento migliore per imbracciare scale, colori e altri arnesi e andare a sensibilizzare l’opinione dei milioni di turisti che ogni anno passano da qui, sul destino del lago salato più famoso al mondo, a rischio scomparsa.

ALFALFA è arrivato dall’Uruguay, FIKOS dalla Grecia. ZIVINK, EREZOO, TRUSTNONE, MASHIAH, HOLY ERA, SWAN e KOBI VOGMAN sono israeliani. Da ieri, su invito di Itai Ma’or e Lior Lifshitz, due abitanti del Kibbutz Kalia, sono impegnati nella creazione della Gallery -430, un museo di street art a cielo aperto, diffuso sulle pareti di un centinaio di edifici abbandonati a poca distanza dal kibbutz.

Sono già una trentina gli artisti coinvolti – locali e internazionali (anche dal Messico e dalla Francia) – e altri ne arriveranno, anche dall’Italia, per le prossime residenze artistiche. Alla galleria, il cui nome indica la profondità attuale del Mar Morto, 430 metri sotto il livello del mare, è affidato il ruolo di portabandiera per il più ampio progetto Save the Dead Sea. Non è un mistero che il Mar Morto corra il pericolo di ritirarsi fino a scomparire.

Le costruzioni dove gli street artist sono al lavoro, oggi a centinaia di metri dall’acqua, quarant’anni fa si affacciavano sul mare. «A un certo punto della mia vita - ricorda ALFALFA - ho sentito raccontare che il Mar Morto si stava asciugando, ma non sapevo con quale rapidità. Solo arrivando qui e vedendo con i miei occhi i segni del suo arretramento mi sono reso conto». Immaginazione, mitologia e creature fantastiche caratterizzano da due anni lo stile di ALFALFA. «Lo scopo del progetto è dare visibilità al problema del Mar Morto, per questo mi sono concentrato sugli occhi dei cammelli, moltiplicandoli fino a creare una sorta di figura mitologica».

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Courtesy of Fabiana Magrì
FIKOS e ALFALFA - making of Gallery -430 | Save the Dead Sea

«È molto positivo che, al giorno d’oggi, ci sia qualcuno che spontaneamente si prende cura di qualcosa» e per questo motivo FIKOS ha accettato con entusiasmo l’invito. La sua passione per lo stile bizantino si combina con il movimento contemporaneo della street art. I temi dei suoi murales derivano dalla tradizione cristiana ortodossa e dalla mitologia greca antica e sono sempre legati ai luoghi in cui sono presentati. «Questo è un luogo storico importante non solo per gli israeliani ma per tutto il mondo». Per prepararsi ha letto le cronache di Flavio Giuseppe - «leggo sempre prima di approcciarmi a un nuovo lavoro» - e per la Gallery -430 si è ispirato al suicidio di massa degli ebrei al termine dell’assedio di Masada nell’anno 73. «Sto dipingendo questi cadaveri ammassati, che per qualcuno può sembrare truce ma prima di tutto è storia e poi è una buona metafora del Mar Morto».

La responsabilità del progressivo essiccamento del Mar Morto è in larga parte dell’uomo e dell’eccessivo sfruttamento delle industrie che si arricchiscono con l’estrazione dei minerali, senza restituire l’acqua pompata via allo Yam HaMelach (Mare Salato, come è chiamato in ebraico). Al disastro concorre anche la natura: il clima torrido induce un’evaporazione dell’acqua tale che non può essere compensata dall'afflusso del fiume Giordano. Quel che resta un mistero – per questo gli abitanti dell’area hanno deciso di iniziare un’azione concreta di sensibilizzazione – è come questa minaccia ambientale, che tocca uno dei luoghi simbolo del turismo israeliano e giordano, non abbia ancora convinto i governi dei due paesi a prendere seri provvedimenti. Solo in Israele sono oltre 3 milioni i turisti che ogni anno vengono per fluttuare nelle acque del Mar Morto, coprirsi con i fanghi naturali del fondale, fare bagni di sole a beneficio della salute della pelle e delle articolazioni.

KOBI VOGMAN Save the Dead Seapinterest
Courtesy of Fabiana Magrì
KOBI VOGMAN – making of Gallery -430 | Save the Dead Sea

«Sto dipingendo una figura umana distesa al sole con un paio di pesci sugli occhi,» spiega SWAN con il rullo da pittura intinto nella vernice verde «come qualcuno che ignora beatamente il problema. Forse aggiungerò un testo, un gioco di parole sul concetto della bassezza geografica del livello del Mar Morto e quella morale della classe politica». Infatti uno dei problemi, forse il maggiore, è politico. I 40 km della sponda ovest del Mar Morto settentrionale, tra Kalia Beach e Ein Gedi, sono in pieno deserto della Giudea, un territorio occupato dalla Giordania fino al 1967 e poi conquistato da Israele con la Guerra dei Sei Giorni. Oggi questa zona, in base agli accordi di Oslo, fa parte di quell’area dei Territori Palestinesi sotto controllo amministrativo e militare israeliano.

«Gli edifici che stiamo dipingendo – spiega Itai Ma’or – in origine erano una base militare giordana. Dopo la sconfitta e il ritiro della Giordania nel 1967, i nostri genitori arrivarono qui con Nahal [programma paramilitare dell’esercito israeliano che combinava il servizio militare e l'insediamento di comunità agricole, spesso in aree periferiche, NdR], e si stabilirono proprio in quelle stesse costruzioni per popolare l’area. Nel 1974 il kibbutz si è spostato più a ridosso delle montagne in cerca di ombra e da allora le strutture sono state definitivamente abbandonate».

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Courtesy of Fabiana Magrì
HOLY ERA– making of Gallery -430 | Save the Dead Sea

All’interno di una costruzione si trovano ancora i segni della Hadar Ochel, la sala refettorio dove, nei kibbutz, si mangia tutti insieme. In un'altra è rimasto il tabellone numerato a cui erano appese le chiavi delle case date in uso ai kibbutnikim (la proprietà privata non era ammessa). Itai è nato e vive al Kibbutz Kalia da 31 anni. Di recente ha preso in gestione l’omonimo stabilimento balneare che impiega una cinquantina di persone dal kibbutz e dalla vicina Gerico: ebrei, musulmani e cristiani. «I rapporti sono sempre stati buoni, – racconta il giovane imprenditore – si lavora insieme per costruire qualcosa di buono per questa regione un po’ abbandonata a sé stessa, nel nulla in mezzo al deserto. Israele o Palestina, a me non importa. Alcuni ci vedono come occupanti di una terra che dovrebbe appartenere ai palestinesi e per questo si rifiutano di risolvere i problemi. La verità è che qui c’è libertà di accesso per tutti: palestinesi, israeliani e turisti da tutto il mondo».

La coesistenza è un altro dei temi cari alla Gallery -430. HOLY ERA sta lavorando ultimamente sul tema dei beduini e qui al Mar Morto sta dipingendo un pentittico, la camminata di una donna beduina nel suo deserto, divisa in cinque stazioni, come fossero fotogrammi di un film. Non è troppo tardi per salvare il Mar Morto? «Non è mai troppo tardi, - è convinto Itai - ma bisogna fermare il ritirarsi delle acque adesso. E poi trovare la soluzione per innalzarne di nuovo il livello. Le tecnologie ci sono e siamo convinti che ci siano anche i fondi. Quello che manca è la volontà, dei politici e delle industrie». Nel frattempo la Gallery -430 sta facendo il giro del mondo con il passaparola e sui social media. «Stiamo cercando di coinvolgere artisti giordani e palestinesi, ma non abbiamo ancora trovato il canale e le connessioni. Forse scriveremo una lettera a Re Abd Allāh di Giordania».