Sono almeno dieci metri di stoffa tra corpetto, maniche, l’ampia gonna resa vaporosa dalle tante sottogonne, a volte un grembiule e uno scialle. E poi il copricapo, che richiama le corna delle mucche, patrimonio economico per il popolo Herero. Le donne Herero cuciono e confezionano da sole questi abiti, e li indossano a volte anche nella vita quotidiana oltre che per le grandi occasioni, come si può vedere da queste foto. Quello che non possiamo ammirare è il portamento, l’andatura lenta e maestosa con cui si muovono. In Italia non esiteremmo a lodare le mani da alta sartoria, ma ovviamente la prima considerazione è un’altra: cosa ci fanno costumi di ispirazione ottocentesca e divise militari della vecchia Europa nel mezzo della Namibia?
Il Paese con uno dei deserti più affascinanti dell’Africa e meta turistica del momento custodisce una storia coloniale ancora poco raccontata. A chi capita di passeggiare per le strade di Lüderitz, cittadina a sud del Paese, è subito chiaro dall’architettura quale nazione è stata qui oltre cento anni fa, per soddisfare le velleità di espansione di Bismarck e dei Kaiser: il nome della città è quello del mercante tedesco che comprò qui il primo terreno, a cui è seguito l’arrivo delle truppe teutoniche e la proclamazione dello Stato “Africa tedesca del Sudovest”. Meno noto è il passato di Shark Island, un’isola oggi penisola, che si avvista davanti alla città: è stata scenario di un famigerato campo di concentramento, di cui oggi non rimane più nulla, solo campeggi per turisti.
Non c’è un’altra parola per descrivere ciò che è successo qui, se non genocidio. Il primo del ventesimo secolo, avvenuto tra il 1904 e il 1908. Non ci sono altre definizioni possibili perché esiste un “ordine di sterminio” firmato dal generale Lothar von Trotha che ha intimato l’uccisione di ogni Herero con o senza armi, incluse donne e bambini, o l’allontanamento verso il deserto, come risposta alle loro rivolte. Gli storici contano tra le 60 e le 80 mila vittime (circa l’80% degli Herero e il 50% dei Nama, altra comunità decimata in quegli anni). Rimangono pochi luoghi della memoria, alcune targhe, un modesto monumento nel luogo dove il generale ha emesso l’ordine (dal 2008 è diventato lo Ozombu Zovindimba National Site).
Perciò il ricordo permane soprattutto in questi abiti ormai fuori dal tempo e nei racconti tramandati di generazione in generazione. Paradossale indossare i vestiti di chi ha annientato il tuo stesso popolo? La presidente della Ovaherero - Ovambanderu Genocide Foundation, Ester Muijangue, lo spiega così: «In Africa, il cacciatore indossa la pelle dell’animale che ha ucciso, così come il soldato s’impossessa dell’uniforme del nemico. È una prova della sua vittoria. Dopo il genocidio, l’uniforme e l’abito lungo sono diventati la nostra identità». Una rivalsa postuma, in qualche modo, e una forma visibile di resistenza all’oblio.
Era impossibile non notare la schiera di abiti rosso scarlatto davanti al tribunale di New York. Nel caldo dello scorso luglio saltavano agli occhi, belli da fotografare: serve anche quello per sfondare la cortina di indifferenza dei media. Erano i rappresentanti di diverse comunità Herero, andati a sentire la prima udienza della causa che hanno intentato contro il governo tedesco sulla base del diritto internazionale, che considera il genocidio un crimine contro l’umanità. La Germania ha citato la mancanza di giurisdizione del tribunale, ma il giudice si è riservato di decidere e per ora la questione rimane sospesa. Gli Herero si battono sostanzialmente con due obiettivi. Innanzitutto partecipare alle negoziazioni tra i due governi, che si trascinano da tre anni. E poi ottenere riparazioni economiche per le perdite, che includono, oltre a migliaia di vite, anche terreni e bestiame, che nel corso dei decenni sono rimasti nelle mani dei discendenti dei coloni e delle classi dominanti. La Namibia è uno Stato indipendente solo dal 1990, i tedeschi hanno perso la colonia durante la Prima guerra mondiale, ma sono stati seguiti nell’occupazione dal Sudafrica, sotto diretta influenza britannica.
Ma, prima di tutto, mancano le scuse ufficiali della Germania. Singoli politici le hanno pronunciate insieme alla parola “genocidio”, ma non esiste alcun documento formale. Una buona occasione, lamentano alcuni attivisti di entrambe le parti, poteva essere l’ultima cerimonia di restituzione di alcuni teschi e ossa avvenuta a fine agosto. Erano le spoglie spedite un secolo fa in Germania per studi pseudoscientifici sulla superiorità della razza in base alle caratteristiche fisiche. Ne esistono molti sepolti nei musei tedeschi, non era la prima volta che avveniva: la German Lost Art Foundation, nata per riconsegnare i beni trafugati dai nazisti, ha da poco annunciato che aprirà una sezione speciale dedicata a oggetti di provenienza coloniale (includendo quindi Paesi come Ruanda, Togo, Camerun, Tanzania).
Per l’ultima cerimonia è stata scelta una chiesa a Berlino e non, per esempio, uno spazio politico come il Parlamento. Cosa stai aspettando, Germania? è il titolo di un articolo pubblicato da Der Spiegel proprio in quei giorni. Pensando alla dolorosa eredità coloniale lasciata ovunque nel mondo, non è difficile intuire quale precedente costituirebbe, per molti Stati europei, una sentenza del tribunale di New York a favore delle riparazioni. «Le scuse non hanno alcun valore senza risarcimento materiale», ha dichiarato Vekuii Rukoro, capo degli Herero in Namibia, «ma alla fine arriveranno: i tedeschi dovranno smettere di fare come gli struzzi e guardarci finalmente in faccia. Quando ero giovane nessuno credeva all’indipendenza, ma oggi siamo diventati un Paese. Per me la questione non è “se” ma “quando” ritroveremo le nostre terre. Resto prudentemente ottimista. In ogni caso, anche quando otterremo le riparazioni, porteremo sempre la nostra uniforme. Ci ricorderà da dove veniamo. Questa storia non si chiuderà, non potremo mai dimenticarla».