«La massima ambizione per una fotografia è quella di finire in un album di famiglia», disse una volta Ferdinando Scianna, tra i più grandi fotografi e fotoreporter viventi. Parola di un uomo che ha portato la sua arte ovunque nel mondo, restando però consapevole di come tutto nasca da un dettaglio privato, da un segreto ritaglio di carta, da uno scatto nato non per essere condiviso ma conservato con gelosia. Con le foto di famiglia la nostra storia è chiusa in un cassetto che spetta solo a noi decidere quando e come riaprire, togliendo il dito di polvere che vi si è depositato sopra. E allora ci lasceremo sorprendere dalla persona che eravamo e dalle persone che abbiamo avuto intorno: siamo davvero noi? Siamo noi quella persona, quel dettaglio, quel momento dimenticato e presente? Sono loro gli uomini e le donne che abbiamo conosciuto, amato, detestato?

Quando, aprendo uno di quei vecchi album impilati nei cassetti con copertine colorate, in tessuto o in cartoncino, con le foto in ordine cronologico, con le annotazioni dell’anno, della ricorrenza, dei nomi di chi appare, ritroviamo genitori, coniugi, parenti, fratelli, zii, cugini, amici talmente intimi da essere finiti nel nostro pranzo di Natale, nella nostra cena di compleanno, nelle nostre vacanze d’infanzia: è allora che ci sentiamo vivi. Quando troviamo le tracce pulsanti di un’epoca in cui immortalavamo non per condividere ma per tramandare, quando lo scopo non era lanciare in una chat o su un social network il nostro migliore profilo, accuratamente scelto dopo centinaia di autoscatti venuti peggio, magari per suscitare invidia o desiderio o per la fretta di comunicare all’istante un luogo, un cocktail, un’ebbrezza forzata. Allora, quando il rito prevedeva settimane di attesa fino alla fine del rullino, il recupero a pagamento delle immagini, la busta da aprire emozionati e i negativi fra cui scegliere quella da riprodurre o da ingrandire, il destinatario di quella sequenza di gesti era uno solo: la persona che un giorno saremmo diventati. I nostri scatti erano cartoline per il futuro, il modo per dire a noi stessi: ecco a te, tra qualche anno vorrai vedere com’eri il giorno in cui ti sei laureato, sposato, quando è nato il tuo primo figlio, quando quel Natale ha nevicato, quando era così evidente che fosse appena morta la nonna, quando facevi quella faccia perché avevi appena litigato con tua moglie, con tuo marito, quando sembravate uniti e invece già scricchiolava tutto, quando eravate ancora così uniti e sorridendo splendevate…

Il passato non è sempre lo stesso, non ce lo raccontiamo mai una volta per tutte. La percezione della nostra famiglia cambia a seconda della strada che hanno preso i rapporti con le persone che abbiamo amato, al punto che qualcuno corregge la storia ritagliando via la sagoma di chi lo ha ripudiato o da cui è stato ripudiato. Non perdoniamo a chi c’era di averci tradito, di essere andato via: la rilettura della nostra vita può passare attraverso una foto tagliuzzata, se non addirittura stracciata in pezzi e gettata nell’immondizia, condannata all’oblio. Se una felicità è stata calpestata allora non valeva niente, pensa qualcuno; altri invece conservano comunque tutto, consapevoli che ogni tassello, ogni incidente di percorso ha contribuito a portarci nel punto in cui ci troviamo. È così che con gli album riattraversiamo il tempo, ed è per questo che non possiamo sfogliarne uno ogni giorno, ci darebbe troppe emozioni: è un regalo da farsi ogni tanto, nello stato d’animo giusto, con qualche ora davanti in un pomeriggio di silenzio. Nelle ore pigre dopo un pranzo della domenica a casa dei nostri genitori, nelle ore vuote seduti in mezzo ai sacchi di una soffitta da sgomberare, di una casa dentro cui fare “lo sbarazzo”, come si dice in Sicilia: svuotarla di tutto ciò che un tempo è appartenuto alla famiglia, decidere cosa tenere, cosa buttare. Fra i ricordi, le foto sono ciò che con più difficoltà lasciamo andare via, forse perché nelle foto i vivi e i morti si mescolano, in un eterno presente. È la loro magia antica, il loro gioco di prestigio. Da loro viene un conforto, pur se temporaneo: ritrovare, intorno a un tavolo conosciuto, una sedia ancora occupata. Una sedia che oggi è vuota. Ed è disturbante il nostro viso di allora, un viso che ci appartiene e allo stesso tempo non ci appartiene più: siamo noi, ma non siamo noi. Il confine fra i viventi e i fantasmi non è mai stato così nitido. Alcuni fra i nostri compagni di strada non ci sono più, ma anche il bambino o il ragazzo che siamo stati somiglia a un’apparizione: la scrittrice francese Annie Ernaux, in Memoria di ragazza (L’Orma editore), prende le mosse da una sua foto del 1958 e scrive «questa ragazza non è me, ma è reale in me. Una sorta di presenza reale».


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© Coco Fronsac
Le vecchie foto trovate al mercato delle pulci sono alla base delle creazioni di Coco Fronsac (artista poliedrica, nata a Parigi nel 1962). Quest’opera, una photo trouvée rielaborata con disegni di maschere tribali, si intitola C’est la fête (2002), e fa parte, come le altre in questo articolo, della serie Chimères et Merveilles.

Non parlano solo di noi le immagini passate, ma di altre presenze: di un’atmosfera, di una società perduta, di una famiglia originaria, di mobili e soprammobili ormai fuori moda, di capigliature e abiti di un decennio che non tornerà. A volte, guardando come ci acconciavamo, siamo assaliti da un forte senso di vergogna: come abbiamo potuto renderci ridicoli? La consapevolezza del dopo è una lunga ombra, ci vediamo più piccoli, più ingenui, più innocenti. Ci facciamo tenerezza da soli. Ecco un’altra delle magie delle vecchie foto: torna il tepore di una felicità perduta. Forse non era davvero felicità, ma che importa? Chissà se un giorno le foto digitali saranno avvolte dalla stessa aura che oggi troviamo nei nostri reperti cartacei. Ogni tanto, su internet, capita di imbattersi in nuove foto di vecchie foto, vengono scattate così: si scosta la carta trasparente per evitare il riflesso del flash, si cerca la nitidezza nell’obiettivo, si immortala il passato per dire al mondo dove ci troviamo adesso. Siamo nel cuore esatto di quel ricordo, al centro della nostra nostalgia, e vogliamo che gli altri lo sappiano. Le foto di foto vintage sono un genere a parte: trasmettiamo qualcosa che per natura è refrattaria alla popolarità. A volte condividiamo immagini dei nostri genitori, dei nostri nonni (che grande mistero, la nostra famiglia prima di noi!) e l’effetto è ancora più sorprendente.

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© Coco Fronsac
L’opera Mais quelle mouche vous pique? (2011), un altro ritratto evocativo che porta dentro altri mondi. L’artista è in mostra con Collages Anatomiques fino al 24 novembre alla Tischenko Gallery di Helsinki (cocofronsac.com).


Per quanto avanti possiamo spostarci nel tempo, il bisogno di radici ci richiamerà a sé, e le foto di carta non perderanno il loro fascino, né le nostre né quelle degli sconosciuti. Già, perché anche le famiglie degli altri sono una sirena, le loro storie d’amore, i loro legami misteriosi. Chi non passa mai il tempo a frugare fra le bancarelle dei mercatini non sa cosa si perde: donne e uomini in posa di cui immaginare le vite, ricostruire i dettagli. Proiettare, fantasticare, rimpiangere anche ciò che non ci riguarda. Quei visi estranei possono esercitare su di noi una seduzione forte come un innamoramento: in un romanzo di Luca Ricci, Gli autunnali (La nave di Teseo), il protagonista perde la testa per una foto di Jeanne Hébuterne, musa di Modigliani. L’uomo strappa quella foto dalle pagine di un libro e comincia a portarla sempre con sé, e infine si allontana dalla moglie, dorme sul divano senza mai separarsene, si innamora di una giovane donna che gli ricorda quella ragazza mai conosciuta. La storia prende una piega onirica, allucinata, la potenza della foto diventa incontrollabile. Una trama esasperata, eppure esatta nel raccontare una seduzione antica a cui non sappiamo resistere, perché dentro un’altra epoca, perfino un’epoca che non abbiamo vissuto, dentro un’altra storia, perfino una storia che non è la nostra, avvertiamo il richiamo di un sortilegio che, nel profondo, ci riguarda e ci avverte: il passato non è mai alle spalle, il passato può materializzarsi qui davanti a te, il passato sei tu.

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Courtesy Einaudi

Nadia Terranova Nata a Messina nel 1978, vive a Roma da parecchi anni. Ha pubblicato libri per ragazzi, e ha esordito nella narrativa nel 2015 con Gli anni al contrario. Ama le librerie dell’usato, fare il bagno al mare fuori stagione, la gentilezza. E riguardare le foto di famiglia, come Ida, la protagonista del suo nuovo romanzo Addio fantasmi, appena uscito da Einaudi.