Il 25 novembre, Giornata per l'eliminazione della violenza sulle donne, è una buona occasione per fare il punto sull'indipendenza economica femminile con l'aiuto di una psicologa che lavora in un centro antiviolenza della rete D.i.Re Donne in Rete contro la violenza (che unisce 85 centri e 55 case rifugio).
Nel loro ultimo rapporto i centri D.i.Re hanno sottolineato che solo il 34,2% delle donne che hanno accolto l'anno scorso ha un lavoro stabile. Tutte le altre sono disoccupate, studentesse, precarie o casalinghe. Per il 35% di loro è da escludere qualsiasi forma di indipendenza economica. Per questo la campagna di raccolta fondi appena lanciata Ali di autonomia vuole sostenere queste donne nei loro bisogni più concreti, quando, durante il percorso di uscita dalla violenza, si ritrovano sole, magari con figli a carico, a dover provvedere a se stesse e ai bambini.

I fondi raccolti con il numero solidale 45593 sono destinati al progetto Germogli di autonomia per sostenere le donne e i loro figli. Margherita Carlini, psicologa psicoterapeuta e criminologa forense, operatrice nel centro antiviolenza di Ancona, gestito dall'associazione Donne e Giustizia e affiliato alla rete D.i.Re ci racconta l'importanza di tale iniziativa e del lavoro svolto fin qui.

Serve ancora il dibattito mediatico sul 25 novembre? Serve ancora questa giornata?
Tantissimo. E lo vedo nell'attività pratica che svolgo da dieci anni. Quando ho iniziato, le donne avevano molta meno consapevolezza sul fatto di poter essere vittime di violenza psicologica o economica. Lo erano di più, chiaramente, se parliamo di violenza fisica. C'è ancora molto da fare, anche se abbiamo fatto tanto. Da quanto si parla dei centri antiviolenza? In fondo da poco. Comunicare il numero antiviolenza 1522 attraverso i media da la possibilità a tante donne di fare una telefonata che può svoltare la loro vita. Quel numero è un servizio pubblico che le mette in contatto con il centro antiviolenza più vicino alla residenza. Parlare con gli operatori di un centro consente un approccio professionale, significa costruire un piano più efficace: non basta sporgere denuncia. Bisogna valutare se la donna può tornare a casa, se ha la possibilità di andare da qualcuno, se ha un lavoro...

Dagli ultimi dati diffusi sappiamo che la violenza più frequente è quella psicologica, subita dalla maggioranza delle donne (73,6%), seguita da quella fisica (62,1% dei casi). Quali sono le forme di violenza psicologica più difficili da combattere?
La violenza psicologica comprende tutti quei comportamenti volti al controllo e alla destabilizzazione della personalità della donna. Passano attraverso meccanismi di svalutazione, umiliazione, estremo controllo. Questo tipo di violenza viene agita da una persona amata ed è quindi normale che abbia un grande peso su me stessa e la mia stabilità. La conseguenza più estrema è l'isolamento: molto spesso la donna viene portata a dubitare delle sue certezze affettive. Viene distanziata dalla famiglia d'origine e dalle amiche per renderla più vulnerabile, perché stretta in una relazione esclusiva con chi la maltratta. Nel momento in cui la donna si rende conto di voler chiedere aiuto, è tutto molto più difficile se i ponti sono stati tagliati.

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Dove sono finite le reti di supporto di queste donne?
Sono state appunto allontanate. Non tutte le storie di violenza sono connotate da violenza fisica ma tutte da violenza psicologica. Senza manipolazione psicologica nessuna donna rimarrebbe all'interno di una relazione maltrattante. Riguardo l'isolamento, quando parli con le famiglie e soprattutto le mamme di queste donne, ti confermano che sono state le prime ad accorgersi che qualcosa nella relazione non funzionava, anche quando non è successo niente di eclatante. Le madri si accorgono dei cambiamenti delle figlie, dei cambi di frequentazione, del modo di curarsi, di rapportarsi con gli altri. Spesso quello con la mamma è il primo rapporto che viene messo in crisi nel processo di isolamento.

Cosa spinge una donna a rivolgersi al centro? Quando si prende consapevolezza che bisogna cercare aiuto?
Non c'è un momento uguale per tutte. Solitamente le donne chiedono aiuto nella fase acuta, quando violenza ha superato un certo livello o coinvolto i figli. O quando le dinamiche di controllo sono arrivate a spaventarle. Ma non è un valore assoluto. Per esempio, capita spesso che decidano di interrompere la relazione di fronte a un tradimento. Può sembrare paradossale, ma il tradimento è una causa socialmente riconosciuta come lecita per interrompere una relazione. Dimostrare una violenza, soprattutto non fisica o non certificata da un medico, è più difficile. Una volta chiesta la separazione, può emergere una storia di violenza e la strada si fa difficile perché a quel punto la denuncia può essere considerata come strumentale alla separazione. In realtà è un percorso molto comune.

Visti i numeri (oltre ventimila accessi ai centri antiviolenza nel 2017) viene da pensare che ognuno di noi ha incrociato una volta nella vita una donna che ha subito violenza. Si possono riconoscere dei segnali?
Sicuramente ognuno di noi ha incrociato una storia di violenza perché è un fenomeno diffuso e sommerso. Se è una persona vicina a noi, possiamo notare il fatto che diventi sfuggente, che cambi le sue abitudini di vita, qualcuna che non è mai presente in autonomia agli eventi sociali. Questo ci deve fare riflettere: la perdita di autonomia di una donna.

Riguardo la possibilità di intervenire sembra una questione molto delicata.
Nessun percorso inizia se non è la donna a deciderlo. Per questo l'approccio dei centri antiviolenza mette la donna al centro, senza imporre mai azioni che non vuole portare avanti. Il percorso è complesso e se lei non è non pronta, non riuscirà a sostenerlo. L'atteggiamento di aiuto deve essere aperto e mai giudicante. Si può far notare che qualcosa sembra non funzionare ma mai chiudere i ponti con frasi come "se non fai così, con me hai chiuso". Così quando la donna deciderà di chiedere aiuto, saprà a chi rivolgersi per un sostegno.

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Quali sono i servizi dei centri antiviolenza?
Da una parte c'è l'accesso alle case rifugio che ospitano le donne. Ma il centro accoglie e accompagna in tutto il percorso di uscita dalla violenza, con sostegno legale e psicologico anche durante la fase processuale, perché la donna va preparata a quello che accade dopo la denuncia. E poi, importantissimo è anche il percorso di svincolo dal punto di vista economico, lavorativo e abitativo.

Infatti la campagna di raccolta fondi quest'anno si focalizza sull’uscita dal centro antiviolenza e sull'autonomia economica delle donne, un altro punto critico?
Sì, perché rispondere a bisogni concreti, come una casa e un lavoro, è fondamentale per renderle autonome dalla relazione maltrattante. La mancanza di alternative è spesso il motivo per cui queste donne non possono svincolarsi dalla loro situazione.

Sappiamo che la violenza sulle donne attraversa tutti gli strati sociali e tutte le regioni d'Italia. Ha notato qualche cambiamento negli ultimi anni?
Le forme di violenza sono sempre le stesse. Secondo me, da operatori, dovremmo porre maggiori attenzioni quando valutiamo l'incolumità di una donna. Oggi il fattore di rischio ritenuto più importante è se la donna ha già subito violenza fisica. In realtà, in molti casi di femminicidio, non era mai stata agita violenza fisica ma erano presenti forti forme di controllo e possesso. Dobbiamo quindi allargare l'orizzonte dei fattori di rischio.

Quali sono le conseguenze per bambini/e che assistono alle violenze sulla propria madre?
Le conseguenze della violenza assistita sono tanto gravi quanto le conseguenze di un abuso fisico. I bambini apprendono per imitazione e quindi possono imparare a ritenere normale un contesto di violenza. Bisogna intervenire rafforzando il rapporto madre-figlio/a che è stato debilitato. Le donne che vivono in queste situazioni sono assorbite dalla loro condizione tanto da mettere in secondo piano i propri bisogni e a volte quelli dei figli, perché sono troppo concentrate a sopravvivere. Questo non significa che siano della cattive madri. Per questo valutare le capacità genitoriali di una donna appena uscita da un percorso di violenza non ha senso: va garantito un tempo di recupero.

Mi racconta una storia a lieto fine?
Di recente ho rivisto una donna che avevo seguito al centro tempo fa. Straniera, con un ex compagno italiano, era stata allontanata dai figli perché considerata non idonea. Lei era in depressione e totalmente sola. Siamo riuscite ad attivare un percorso di sostegno personale e legale efficace: l'ho rivista accompagnare a scuola i bambini.

La rete dei centri antiviolenza italiani si è dichiaratamente schierata contro il ddl Pillon a tema separazione e affido, dal suo punto di vista quali sono i punti critici?
Se fosse approvato, ci riporterebbe indietro nel tempo a più di trent'anni fa. La proposta grave del ddl è l'imposizione del percorso di mediazione: l'Italia nel 2011 ha ratificato la convenzione di Istanbul che proibisce ogni tentativo di conciliazione in caso di violenza, perché questo nega la gravità della violenza stessa e pone la donna e i figli in pericolo. Il ddl inoltre tratta i bambini come fossero dei pacchi, prevedendo un doppio domicilio a prescindere da quello che è successo in famiglia.

Dal 19 al 26 novembre alla campagna "Ali di autonomia" della rete dei centri antiviolenza italiani è legato il numero solidale 45593 per donare 2 Euro da cellulare personale Wind Tre, TIM, Vodafone, PosteMobile, Iliad, Coop Voce, Tiscali, 5 Euro da rete fissa TWT, Convergenze e PosteMobile e 5 o 10 Euro da rete fissa TIM, Wind Tre, Fastweb, Vodafone e Tiscali.