Parigi, 7 gennaio 2015. Catherine Meurisse non è in redazione. Un disastro amoroso e una notte di incubi hanno ritardato il suo arrivo in Rue Appert, dov’è in corso il massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo. Giunta a destinazione ha fatto solo in tempo a sentire i colpi dei kalashnikov che avrebbero ucciso otto colleghi. Abbastanza per uscirne a pezzi. La testa sprofondata nel buio, la memoria offuscata, la volontà inerte.

Il dopo di quel giorno terribile era diventato così, un tunnel in apparenza senza via d’uscita. Finché è arrivata la leggerezza. Un nuovo stato dell’anima ma soprattutto un libro con cui Catherine, vignettista, ha intrapreso una rinascita. Perché La leggerezza (Clichy, 19 €) è la storia illustrata di un cammino. Verso la bellezza.

«Per settimane, dissociata da me stessa e dal mondo, volevo solo camminare e stare fuori», racconta Meurisse. «Macinavo chilometri con un quaderno per gli appunti in borsa ed ero immersa nel nero. Avevo bisogno di rivolgere l’attenzione a qualcosa di bello e di immutabile: la natura, gli alberi, l’oceano, ma anche la cultura, l’arte, i musei».

Finché, a cinque mesi dalla strage, Catherine decide di lasciare Parigi. Convinta che lo shock benefico della sindrome di Stendhal avrebbe avuto il potere di salvarla, la sua meta è Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma: una specie di fortezza nella città-simbolo della bellezza, dove hanno soggiornato Fragonard, Ingres, Pascal, Balthus... Una figura minuscola che cammina a testa china nel vuoto: sulla copertina del libro ha ritratto se stessa nel momento del buio.

Quando è incominciata la ripresa? Da quel disegno, il mio primo gesto di leggerezza. In quel periodo tutti scrivevano, dicevano, urlavano la stessa cosa. “Je suis Charlie” era la formula che il mondo aveva scelto per raccontare la sua solidarietà e il nostro dolore. Ma per noi quella frase alla fine non aveva più significato. Noi eravamo preoccupati di non impazzire: quando scampi un massacro sai che la follia è vicina. Disegnare mi ha salvato la pelle.

Quanto ha contato la bellezza per farcela? L’ho cercata per istinto, è partito tutto da lì. Dopo il massacro, a una mostra sono incappata ne L’urlo di Munch. È stato come svegliarmi. Gridava l’orrore che avevo provato quel giorno, prima di sprofondare nel silenzio, volevo buttarmici dentro. Dopo la strage del Bataclan, ricordo un Caravaggio, al Louvre: mi parve la prova che un po’ di luce c’era ancora.

E a Roma, è arrivata la sindrome di Stendhal? Non come pensavo. Nei giardini di Villa Medici le statue mutilate mi riportavano alle vittime degli attacchi e all’inizio tutto sapeva di morte. Ma la mia nuova ossessione per la bellezza è stata la svolta. Mi ha rimesso a contatto con me stessa, mi ha spinta a concentrarmi su ciò che vale e che dura, e a osservare la vita con gli occhi degli altri, che poi è il principio della tolleranza. La cultura è questo, è l’unica cosa che può salvarci.

Che cosa la fa ridere adesso? Ho lasciato Charlie Hebdo e ora pubblico vignette umoristiche sul sesso. Ho riscoperto l’amicizia, l’amore, la libido della vita, e rido. È che certi morti chiedono ai vivi di ridere al posto loro.