Nessuna bambina moderna - di quelle che, come me, in seguito sarebbero state definite millennial - ha voluto o potuto sottrarsi alla dittatura dello sdolcinato rosa baby, del glitter, dei lustrini.

APPARTENGO A UNA GENERAZIONE che ha avuto un’infanzia contagiata da questi simboli di un’apparente spensieratezza, satura di toni pastello e al sapore (artificiale) di pesca.

Oggi li ritrovo nelle protagoniste di quella che viene chiamata la “quarta ondata” del femminismo, successiva all’epoca pionieristica terminata alla fine dell’800, alla ribellione degli anni 70, alle rivendicazioni dei 90 e dei primi 2000.

Le artiste, fotografe e attiviste di oggi riconoscono i meriti di mamme e nonne ma ne prendono le distanze. Non sono contro gli uomini nel senso di “genere” ma contro un mondo che dagli uomini è stato costruito e organizzato.

E usano, con rabbia venata di ironia, proprio quell’antologia di “cose da femmine” - ma sicuramente create da uomini - per lanciare messaggi visivi.

Non si accontentanto più delle “pari opportunità”, ma si preoccupano di riformare uno status femminile di cui vogliono riappropriarsi. Ma si rende urgente e necessario per tutte noi, ragazze occidentali del XXI secolo, a cui ogni privilegio e diritto sembra essere garantito.

Cresciute all’epoca dei social media, le “Pink millennial” hanno capito che, se di nuovo impegno si deve parlare, non si può che partire da lì: dalla centralità che le donne hanno sempre avuto nella cultura visiva del mondo, senza avere mai avuto la possibilità di controllarlo del tutto.

Charlotte Jansen, autrice del libro Girl on Girl: Art and Photography in the Age of the Female Gaze (Laurence King) azzarda addirittura una data. Il 2010. L’anno in cui l’iPhone introduce la fotocamera frontale, permettendo così di farsi i selfie.

Per la prima volta le ragazze hanno la possibilità di gestire in autonomia la propria immagine. Che diffondono attraverso la “casa comune” e trasversale di Instagram, galleria d’immagini globale, perfetto specchio del sistema, tanto aperta e raggiungibile da tutti quanto sotto stretto controllo, appunto.

Prendono parte a un discorso collettivo che restituisce la complessità “delle” femminilità, al plurale: quei tipi di bellezza considerati non conformi rispetto a quelli imposti dai media.

E scelgono atmosfere infantili, lingerie color confetto, adesivi di stelline, farfalline e unicorni perché il neofemminismo dev’essere mainstream, pop, accattivante per raggiungere quante più persone possibile.

Il motivo? Come dicevano più di 40 anni fa, il sistema lo combatti meglio se ne fai parte integrante. Lo distruggi da dentro.

L’ESORDIO DI PETRA COLLINS, ARTISTA canadese, racchiude perfettamente lo spirito di questa richiesta.

Classe 1992, inizia a lavorare a 15 anni e diventa assistente di Richard Kern, fotografo softporno. Conosce poi Tavi Gevinson, la più precoce fashion blogger di sempre: le due seguono la stessa filosofia, ma la descrivono con linguaggi diversi: una “parla” con la fotografia, l’altra con la moda.

Il suo nome inizia a circolare quando Petra disegna una t-shirt per American Apparel, il cui soggetto è una “menstruating-masturbating vagina”. Scandalo.

È interessante ricordare che la linea di streetstyle Usa è fallita anche perché accusata di aver pubblicizzato i prodotti attraverso campagne dove le modelle apparivano in pose fortemente sessualizzate.

A dimostrazione di quanto argomenti ordinari, come grasso, peli, sangue siano ancora ritenuti tabù fortissimi, Petra scrive il pamphlet Censorship and the Female Body nel 2013 contro la rimozione del suo account per aver postato una foto dell’inguine in slip azzurri, circondato da stelline e glitter, non depilato.

Convinta che l’essere femminista non sia d’ostacolo all’aspetto commerciale della sua professione - Petra è modella e testimonial di Gucci per la fragranza Gucci Bloom -, ora dà alle stampe la prima monografia, Petra Collins: Coming of Age (Rizzoli New York).

Il titolo è eloquente: in italiano può essere tradotto come “maturare”. Se è vero - e lo è - che sembrare grandi non è più un’ambizione (lo è stato per molto tempo), affrontare il passaggio all’età adulta diventa una questione esistenziale.

Soprattutto per chi, in questo momento decisivo reclama il suo “nuovo” corpo nel mondo.

ARVIDA BYSTROM È UN ALTRO NOME importante nella quarta ondata femminista. È un’artista svedese che esplora in modo disinibito e ironico la propria fisicità con selfie provocatori per mostrare come cambia, cresce, invecchia, insomma fa esperienze che non sono solo legate alla seduzione, ma a ogni funzione organica di un essere vivente.

Foto regolarmente censurate dai moderatori del social network, e che Arvida e la sua collega Molly Soda hanno raccolto nel libro Pics or it Didn’t Happen (Prestel).

Sono ritratti di ragazze in camerette e deliri in cotonine fiorite, ma sempre con un risvolto “acido”, disturbante, crudo, che rimanda a disagi contemporanei.

Del resto Arvida è stata al centro di un tornado mediatico perché è apparsa in uno spot per Adidas con le gambe non depilate: le accuse e le polemiche sono state degne di un Medioevo di ritorno. Lei e Soda documentano un universo “girlish” di situazioni ovattate e intime per denunciare una femminilità fatta anche di debolezza, disturbi legati all’alimentazione, alle tempeste ormonali e a quelle sentimentali.

Invece Julia Baylis e la fotografa Mayan Toledano hanno lanciato il il marchio di intimo Me and you, dove un universo bambinesco si contrappone ai look sexy di rigore nella lingerie.

La parola “Feminist” troneggia nelle loro collezioni, anche se non tutte si sentono completamente a loro agio con questa etichetta. Mayan Toledano afferma che «ogni forma di esposizione del corpo femminile realizzata da una donna, ci dà forza e potere».

Perfino Becca Albee, una delle artiste più “arrabbiate”, già punk, già Riot Girrl, fa scatti immersi nel rosa «perché è stato un colore così tanto associato alle donne, da non potere essere più trattato in modo neutro».

LA CONQUISTA PIÙ GRANDE? FORSE l’approdo anche al mondo della moda e della cultura “istituzionali”.

Alla sfilata per questo autunno-inverno, Angela Missoni ha regalato agli invitati i “pink pussy hats”, i berretti in maglia adottati dalle donne come emblema di resistenza. A Londra, lo stilista Ryan Lo realizza abiti in lurex e camouflage e parla della sua moda come “nympho-chic”.

Diventare visibili, far parte dell’establishment senza smettere di combatterlo: questa la mission del collettivo “The Ardorous” a cui appartiene gran parte delle artiste citate.

Le loro opere vivono senza distinzione tanto ad Art Basel e nelle collezioni dei più grandi musei al mondo, come il MoMa, quanto nell’advertising.

Carmen Winant, docente di Visual Studies al College of Art and Design di Columbus, scrive in un saggio sul sito di Aperture dal titolo Our Bodies, Online: Feminist images in the age of Instagram: «Quando si cerca di spiegare la complessità degli argomenti che queste ragazze affrontano, è importante riconoscere che hanno deliberatamente preso il controllo degli strumenti patriarcali per distruggere la “casa del padrone”».

Il rosa diventa così segno di un odierno “empowerment”. In assoluto il primo capace di riunire mass media, web culture, arte e moda.

Che vive addosso alle donne, nel mondo, anche solo con una cover del cellulare, una penna o una ciocca di capelli rosa.