È il Wonderland Quartet, ma non ci sono grandi meraviglie. È il mondo di Epopea americana (la quadrilogia composta dai romanzi Il giardino delle delizie, I ricchi, usciti a maggio; Loro e Il paese delle meraviglie in libreria in questi giorni, tutti pubblicati da il Saggiatore, ndr) ed è fatto di violenza.

Bambine stuprate, accoltellamenti, colpi di pistola nella notte, piccoli massacri in famiglia, questo solo per le storie ambientate in casa, poi ci sono le rivolte di Detroit del ’67, i rivoluzionari, le sommosse.

Ma se chiedo a Joyce Carol Oates perché in questi libri la storia dell’America con la S maiuscola e quella più piccola vanno avanti con la violenza, mi dice che non ho letto i suoi libri.

Ok, sapevo che aveva un caratteraccio, e io comunque non sono mai piaciuta alle professoresse (nel 2014 ha smesso di insegnare a Princeton dopo 36 anni). Forse vedo il marcio ovunque. Ma qui il marcio c’è. C’è la feccia, white trash. È lei a sottolinearlo sempre.

Sì che li ho letti i suoi libri, Signora Oates. Non tutti quelli che ha scritto (quasi cento), abbia la pazienza, ma questi sì, e sono pieni di violenza, ogni personaggio possiede un’arma, una cosa tutta americana.

«Non ho mai voluto fare la sociologa». Ma se un autore scrive storie americane, ambientate e corrose da quei fatti, e attraversa un secolo coi suoi libri, diventa un po’ sociologo, anche se l’idea non gli piace. In Epopea americana c’è questo, se ne faccia una ragione, Signora Oates.

Quando si scrive un libro non si può avere la presunzione di sapere quello che ci vedranno gli altri. Qui c’è il fondamento dell’America. I ricchi e i poveri. La rabbia di chi vuole emergere. I soldi.

C’è la storia del sogno americano. E quel sogno fa un po’ schifo. Nel Giardino delle delizie è appiccicato insieme agli insetti della carta moschicida nelle baracche ai margini dei campi del Kentucky, del New Jersey, della Florida, il “sunshine state” che per qualcuno non ha mai brillato.

Braccianti e raccoglitori della provincia americana durante la Grande Depressione. Uomini violenti, razzisti, che sopravvivono con la legge del più forte. Sono dei sempre-poveri, almeno nell’anima, hanno provato a emanciparsi ma quando gli è andata bene sono riusciti soltanto a insediarsi in una bella casa.

White trash forever. Come Clara, che guarda con invidia quelli che «vivono da qualche parte nell’altro lato della città, in quelle casette di legno ordinate, bianche e tutte uguali». Vanno avanti per “upgrade successivi”, acquistando potere ulteriore.

Ogni generazione fa un passo successivo nella scala sociale. Ma non per migliorarsi davvero. Per avere più denaro. C’è un’ossessione rispetto al suo accumulo, alla sua perdita, al suo mantenimento.

Anche questa mi sembra una cosa molto americana, ma non glielo dico. Nel Giardino delle delizie la parola “soldi” compare 77 volte. Sì che li ho letti i suoi libri, Signora Oates, vede, mi sono andata anche a cercare la frequenza delle parole più utilizzate.

Quello del Giardino delle delizie è un mondo invivibile. Joyce Carol Oates ha vissuto in un mondo molto simile, anche lei ha trascorso l’infanzia in campagna.

Si può provare nostalgia per un mondo in cui non si vorrebbe vivere? «Per natura non sono una persona nostalgica, ma amo rielaborare le ambiguità di quell’emozione: la ricerca di un passato idealizzato, il rifiuto dell’autenticità di quel passato».

Le dico che noi non abbiamo mai avuto un sogno italiano, e forse è stato meglio così. Su questo siamo d’accordo. Meno male.

Allora cos’era quel sogno americano? «È un cliché, una cosa vaga, che può essere messa in discussione. Credo che fosse nato per incoraggiare gli immigrati poveri: se lavori duramente, avrai successo, probabilmente diventerai anche molto ricco. Per la maggior parte delle persone una cosa assolutamente fantastica.

Gli Stati Uniti sono estremamente competitivi, e mentre qualcuno riesce davvero a raggiungere il successo, molti non ci riescono, e non possono». In Epopea americana c’è la voce dell’America, tutte le voci.

Ci possiamo trovare al tavolo di una cucina durante la cena di una famiglia di coltivatori stagionali dell’Arkansas, insieme a una donna invecchiata prima del tempo nella stanza della sua casa di riposo davanti a una tv accesa negli anni Sessanta, nell’auto nuova di un uomo che è nato povero ma che ora ha una sua macchina e una sua casa.

Nel drugstore di una piccola cittadina con una ragazzina e la sua vergogna perché non ha i soldi per comprare niente. I personaggi femminili sono forti. Sempre in movimento, scappano da una parte all’altra del paese, cancellano il passato per costruirsene uno nuovo.

Per emanciparsi, per non essere più una cosa piccola come l’immagine che Clara imprime dentro di sé da bambina, «le ragazze di campagna che camminano per le stradine secondarie per tutta la vita».

«Io sono affascinata dalle vite degli altri - specialmente, ma non esclusivamente, dalle vite delle ragazze e delle donne», dice la Oates.

Le chiedo se esiste una letteratura femminile. «Esiste certamente - come le librerie la categorizzano. Non c’è niente di male in questo, credo - più lettori ci sono, meglio è».

Le sue ragazze vogliono essere belle da fare invidia, assomigliare alle dive del cinema, studiano il sorriso di una certa attrice, il taglio di capelli di un’altra. Joyce Carol Oates sa raccontare il mondo femminile, specialmente quando si scontra caparbiamente con quello maschile.

È tutta la vita che fa quella cosa incredibile: raccontare storie. Non ha mai smesso. Il memoir Storia di una vedova (uscito da Bompiani, ndr) lo dimostra. Ci sa fare con ogni tipo di fiction, anche quella privata.

E adesso ha trovato un nuovo posto dove scrivere senza tregua: Twitter. Anche se non è la piattaforma dove dà il meglio di sé (su Jezebel hanno raccolto una serie di suoi tweet un po’ pazzarielli sotto il titolo: “per favore smetta di twittare, Mrs. Oates”, e qualche commentatore sotto ha detto che di persona è intrattabile).

Come le signore di una certa età, e come mia madre, la Oates posta le foto dei fiori del suo giardino, lei però insieme alle invettive contro il presidente. Non è una misoneista come Franzen. La distrazione sui social non le ruba tempo alla scrittura.

«Negli Stati Uniti i social media come Twitter hanno rivelato quello che i media convenzionali hanno censurato o trattato in modo superficiale». Mi è stata data disposizione di non farle domande di politica, ma visto che la leggo su Twitter, le chiedo comunque di Trump (sul suo account non gli concede nemmeno la grazia di digitare il nome per esteso, quando si riferisce a lui scrive T***p).

Qui non si risparmia. Nessuno la fa arrabbiare come lui. «A partire dal principio, T***p non è mai stato un candidato serio. Ha immaginato se stesso come l’intrattenitore di un reality show che crea una sorta di parodia di un candidato repubblicano e, visto che non aveva niente da perdere, ha avuto molto tempo per annoiarli. Il suo staff paga le persone perché partecipino ai suoi eventi ed esultino per lui. Andando avanti col tempo la performance di T***p è diventata esagerata, aggressiva, insultante - come nel wrestling professionale, a cui è stato associato - virando in un bullismo razzista e sproloquiante. Io sinceramente non credo che lui si aspettasse di destare una base così forte di fanatici razzisti - “nazionalisti bianchi” - in America. Molte delle sue convinzioni iniziali, come il supporto liberale a Planned Parenthood, etc, le ha scaricate durante la sua campagna per l’ala di estrema destra. Visto che la candidatura è stata una specie di barzelletta, sebbene una crudele, brutta barzelletta, non scrivo mai il suo nome per intero - anche se a volte devo farlo, di tanto in tanto - per me lui è “T***p” - un ritardato, un pagliaccio crudele, un predatore dei deboli, che batte il tasto sul risentimento dei suoi costituenti bianchi. È un falso patriottismo il suo, che attecchisce sul sentimentalismo del linciaggio. È un falso presidente, che raramente dice qualcosa di credibile, e che forse addirittura a questo punto sta andando verso la deriva della demenza senile mentre un’America spaventata osserva e sembra che non sappia cosa fare».

Mi ero segnata un’altra cosa importante che aveva detto. «Per molti di noi, scrivere è un modo per placarsi o, forse, anche per pungolarsi, per sentire la nostalgia di casa».

Continua a pungolare, non so se senta nostalgia di casa, ma non mi sembra che si sia ancora placata. Anzi, secondo me su Trump potrebbe scriverci un libro pazzesco. Implacabile.