Perdere il lavoro, essere costretti a cercarne un altro, trovarsi a dover affrontare una nuova sfida (che non è mai soltanto economica), col terrore che la vita non ci riesca bene come prima. Ma il “prima” è necessariamente migliore di un “dopo” che, proprio perché inconoscibile, magari può riservare delle (piacevoli) sorprese? Di questo e molto altro parla un saggio («non lo definisca “manuale”, per favore!»), in libreria il 4 febbraio, che si chiama provocatoriamente Quasi quasi mi licenzio (Salani, 12 euro), che diventa più consolatorio nel sottotitolo Non è mai troppo tardi per cambiar vita.

Gli autori sono Roberto d’Incau e Rosa Tessa. Lui: headhunter ed executive coach milanese con molti anni di esperienza nel settore del lusso. Lei, giornalista per varie testate, scrive di economia e di finanza, conciliando come lui il lavoro e la famiglia. «Sia io che Rosa siamo genitori e abbiamo attraversato così tanti cambiamenti professionali da poter parlare - diciamo così - con estrema cognizione di causa», assicura d’Incau, forte anche di centinaia di incontri con persone che transitano nel suo ufficio proprio nel momento delicato in cui stanno per traghettare il proprio destino (e la propria busta paga) da un ufficio all’altro, «un momento in cui si cambia e che - devo ammettere - trova molto più disponibili e ricettive le donne rispetto agli uomini». Touché. Iniziamo.

Scusi, ma uscire in tempi di recessione e di crisi con un libro intitolato così, non le sembra eccessivo? Al contrario. È un forte invito a uscire una volta per tutte da quella mitologia del posto fisso, del guadagno sicuro, dell’impiego certo che è tipica della cultura e della famiglia italiana. Un modo di pensare molto conservatore e molto conservativo al cui centro non c’è l’idea di «faccio una cosa che mi piace», ma «faccio una cosa che mi dà lo stipendio»,spostando così la centralità del proprio stare al mondo non in base a ciò che si desidera veramente, ma in base a ciò che apparentemente ci protegge da eventuali attacchi alla nostra presunta serenità. Mi fa arrabbiare che oggi sia di gran moda parlare di downshifting, ennesima etichetta anglosassone a un atteggiamento che noi conosciamo fin troppo bene: ovvero accontentarsi, autoconvincersi che si sta bene lasciando la situazione com’è. Il che comporta automaticamente una compressione dei sogni, una semplificazione del pensiero, una riduzione delle proprie esigenze psicologiche. Una tendenza sbandierata dai media come un inno alla sobrietà, alla vita più o meno frugale, dove alzare la testa è considerato quasi disdicevole. Invece penso che proprio ora si dovrebbe amplificare il concetto opposto, l’upshifting: puntare in alto ma non solo in senso ambizioso. Per me vuol dire accettare il cambiamento, fare tesoro della molteplicità delle occasioni che la vita può riservare.

Potrebbe sembrare un atteggiamento non in linea con il mondo di oggi... Proprio no, e le spiego perché. L’idea di Quasi quasi mi licenzio mi è venuta all’inizio del 2008, quando la crisi mondiale non era ancora diventata lo tsunami dei mesi successivi. Io ero a Londra e leggevo su tantissime testate quanto fosse diventato importante, per tutti noi, cercare di realizzarsi svolgendo una professione che amiamo. Perché sono in ballo proprio l’amore, la passione e le emozioni più profonde quando si tratta di mercato del lavoro, anche se mi rendo conto che potrebbe sembrare un paradosso.

In effetti, termini così sentimentali sono inconsueti quando sono in ballo problemi di numeri, tipo: ho i soldi per arrivare a fine mese? Ma se i soldi per arrivare a fine mese lei se li procura danneggiando non solo le sue aspirazioni ma addirittura la sua salute psicofisica, non è forse il caso di dire,anzi di dire a se stessi: «Stop! Fermati!» e riflettere a quante influenze sbagliate - indotte dalla famiglia, dalla cultura, da una tradizione ormai obsoleta - hanno inciso sulle nostre scelte? Lei non ha idea di quanti trenta-quarantenni arrivano da me confidandomi: «Ho sbagliato tutto, finora ho fatto quello che gli altri si aspettavano da me senza seguire le mie passioni». Conoscersi a fondo è il più grande regalo che ci si possa offrire, perché solo quando scopriamola verità su di noi e le nostre reali esigenze, allora possiamo iniziare un viaggio che può partire, magari, da un lutto più o meno simbolico, da una rottura con il passato, come perdere il lavoro diprima.

Che cosa dice a chi arriva da lei? Il mio consiglio è di iniziare sì a lavorare, ma prima di tutto su se stessi, anche attraverso un percorso psicoanalitico, altro grande tabù nostrano.Come se andare in analisi fosse una roba da matti, appunto.

Certo, ma i suoi interlocutori non sono esattamente l’impiegato alla Fantozzi... Sbaglia. Non solo ho a che fare con tutte le tipologie professionali e non solo gli happy few del lusso o della moda. Però anche lei, mi scusi, è prigioniero di un cliché: certe volte l’impiegato alla Fantozzi può costituire un modello di riferimento per una persona che ha dall’esterno un lavoro molto glamorous. Le racconto un aneddoto: una mia cliente, discendente da una dinastia di imprenditori miliardari, era impegnata -infelicemente - nell’azienda di famiglia. Le ho consigliato di pensare a se stessa come persona e non come figlia o nipote di. Risultato? Ora ha un delizioso ristorante, cucina tutto il giorno -perché quella era la sua vera vocazione - e magari guadagna meno di prima, ma è molto più contenta. Ha trovato finalmente quella che io chiamo la sua “zona conforto”.

Può spiegarsi meglio? Ecco:io credo che ognuno di noi, a parte la consistenza del conto in banca, abbia una personalissima “zona conforto”, dove si trova bene. Dentro c’è tutto quello che ci fa sentire meglio: gli amici, l’amore, gli hobby. Nella ricerca di una nuova occupazione si deve cercare di riprodurla, perché comunque si passa a lavorare un terzo delle nostre giornate. Giornate che non possono né devono essere vissute solo come un dovere o un mezzo per arrivare alla famigerata busta paga di fine mese.

Ricorda, in positivo, “Zona disagio”, raccolta di storie di Jonathan Franzen quando lo scrittore allude al gesto del padre che ogni sera muoveva il termostato del riscaldamento di casa verso la “zona benessere”... Esatto. Ma si deve anche fare attenzione a far sì che quest’area emozionale “bella” non mascheri una “zona di sconforto”. Non le è mai capitato di aver pensato che il suo lavoro, i suoi colleghi, la gente con cui aveva a che fare fosse ciò che lei desiderava veramente e invece, quando le è capitato di cambiare testata, si è poi reso conto di quanto fosse falsa quella sensazione, di quale vuoto nascondesse? Aveva lasciato l’autentica “zona conforto” e si era autocostruito una sorta di realtà fittizia.

Ho peccato di downshifting? No, non si è permesso di coltivare delle utopie. Questo è il vero peccato capitale dei giorni nostri: insegno in università pubbliche e in atenei privati e vedo studenti per cui c’è solo una e una sola strada da percorrere nel loro futuro. Si sta perdendo la capacità di mettere in pratica - o tentare di farlo - i propri ideali, perché questo implica comunque un rischio da assumersi, un’avventura da affrontare il cui finale è tutto da scrivere...

Cosa che non è capitata ai dieci personaggi che sono intervistati nel libro: storie di successo di persone che hanno voluto cambiare vita... Sono persone di successo non solo per i traguardi raggiunti, ma soprattutto perché hanno saputo ascoltarsi per arrivare a una grande consapevolezza. Non sono esempi di chi ce l’ha fatta a guadagnare più soldi, ma esempi cui ispirarsi per l’operazione di autoconoscenza.

Che cosa possiamo imparare da loro (e dal suo saggio)? Che anche gli eventi più tragici nella nostra carriera possono servire a costruire un futuro migliore:reinventarsi, rimettersi in gioco, qualunque sia la difficoltà del gioco, permette comunque di restituirci alla bellezza del cambiamento. Perché non bisogna “fare di necessità virtù”, ma l’opposto: si deve fare delle nostre virtù la più importante, ineludibile ragione di vita.