Quando LA INTERVISTAVANO PER SEX AND THE CITY, e le chiedevano se davvero la vita di relazioni, per una zitella newyorkese, fosse così difficile, Sarah Jessica Parker sbuffava facendo presente che a New York le persone escono a piedi, prendono la metropolitana, insomma hanno molteplici occasioni di incontrare altri esseri umani; a Los Angeles, al contrario, stanno ore in autostrada, isolati nella loro macchina, eppure nessuno prende mai la California a esempio di alienazione relazionale. Tra Roma e Milano c’è un equivoco simile: la seconda ha una peggior reputazione (donne che se la tirano, approcci impossibili, rigidità diffusa), eppure la prima, per una single (sì, insomma: una zitella) è territorio ben più impervio. Tanto per cominciare, c’è la minor diffusione della specie. Benedetta - romana, una conclusa relazione con un milanese - annuisce quando le dico che l’idea di indagare il tema mi è venuta quando mi sono accorta di quanto siano geograficamente tipizzate le mie frequentazioni: a Roma conosco solo coppie, ed essere costantemente l’unica dispari a cena capisco che faccia passar la voglia di uscire, a una ragazza sola (e poi, suvvia: perché una ragazza sola dovrebbe prendersi il disturbo di mettersi in tiro per ritrovarsi a una tavolata dove non ha alcuna speranza non dico di rimorchiare, ma neanche di flirtare un po’, se non vuole che le amiche le tolgano il saluto?); a Milano, invece, conosco solo zitelle disperate, donne che ogni sera della loro vita ci sperano, si vestono come fashion victim, si acconciano, mangiano sashimi senza riso per non metter su un etto ed essere competitive sul mercato, e ogni sera tornano a casa sole borbottando «In questa città sono tutti gay» (e allora come mai i gay si lamentano altrettanto, della scarsa rimorchiabilità milanese?). Benedetta, dunque, annuisce, e mi spiega che, vivendo a Roma, non potrebbe sopportare di essere sola: «Mi sentirei come Nanni Moretti in quella scena di Bianca in cui va in spiaggia ed è l’unico non accoppiato».

BENEDETTA SORVOLA SUL PERCHÉ LA SUA sua relazione si sia conclusa, ma sul treno dell’amore (il soprannome che le frequentatrici del venerdì sera e del lunedì mattina danno al Frecciarossa, il treno ad alta velocità che in tre ore e mezza ti porta dal fidanzato romano o milanese) si dice c’entrino le abitudini locali. Aperitivi, e weekend. Non molto tempo fa, alla porta del mio appartamento romano suonò Luca, con cui non avevo particolare confidenza, ma che aveva troppe occhiaie per andare più lontano, in cerca di una vera amica con cui parlare. Luca era fidanzato con la mia vicina di pianerottolo, Laura, ed era disperato. Laura era di Milano. Si era trasferita a Roma, sì, ma aveva mantenuto le abitudini milanesi. Il fine settimana fuori. Il milanese non riesce a restare in città il sabato, proprio non ce la fa, e già il fatto che sia un’abitudine prescrittiva la fa essere più una fatica che un piacere. Perdipiù, i luoghi di villeggiatura dell’infanzia milanese sembrano gli unici praticabili. Luca scuoteva la testa dicendo che lui non ce la faceva più, ad andare tutti i fine settimana invernali in aereo a Venezia, noleggiare una macchina, andare a Cortina, sciare due giorni, essere in ufficio a Roma il lunedì mattina. La sua disperazione era evidente, anche se non capivo se fosse più il frutto di stanchezza fisica o prosciugamento economico (però doveva avere un sacco di punti Millemiglia). Quando lo racconto a Paola, che prende il treno dell’amore da dieci anni per andare da un milanese (e se non si è mai voluta trasferire, in dieci anni, c’entrano un po’ anche le spiagge), lei non mi lascia neanche finire: «Ogni volta è una lotta per non andare in Romagna. Il peggior mare del mondo, e bisogna passarci il weekend perché lui ci andava da piccolo. Io andavo ad Anzio, da piccola, ma poi mi sono emancipata».

IL PROBLEMA DELL’APERITIVO SI PONE in fasi più acerbe della relazione. Come si stabilisce qual è il grado di avanzamento? Tra l’sms e la telefonata, per dire, la differenza nel livello di carte scoperte è chiara a tutte; ma tra aperitivo e cena? Le romane, che hanno visto abbastanza Sex and the City da porsi il problema dei segnali, se uno le invita per l’aperitivo pensano voglia tenersi una via di fuga aperta: se si scoccia, può dire che per cena aveva già un impegno. Le milanesi, che vivono in una città che fa finta a tempo pieno d’essere New York (a Milano si fa il brunch, si gioca a squash, insomma si fa di tutto per sentirsi metropoli, facendo le cose che a Manhattan andavano di moda quindici anni fa), hanno introiettato la parte subliminale dei segnali: a Milano non cena nessuno. Agli orrendissimi buffet degli aperitivi si mangia e ci si attarda talmente tanto che l’opzione cena non è proprio prevista. Perdipiù, c’è abbastanza casino da coprire eventuali imbarazzanti silenzi da primo appuntamento fallimentare. Le milanesi non si aspettano che lui le inviti a cena, perché sanno che non accadrà. Mai.

ANNI FA AVEVO UN FIDANZATO MILANESE CHE, QUANDO veniva a trovarmi a Roma, non poteva essere lasciato solo. Allorché camminante senza guardiana per le strade della città, egli rincasava sentendosi Mastroianni o giù di lì. Attribuiva il merito della sua ipertrofica vanità al fatto che «le romane, per strada, ti guardano come se volessero staccarti la carne di dosso». Ho il sospetto che le romane in realtà non se lo filassero per niente, ma certo che le milanesi (invece) se la tirino è convinzione diffusa (e simmetrica a quella, delle milanesi, che i loro concittadini non siano interessati alle donne: Milano è formata da due città di single che non s’incontrano a metà strada). Mattia, che è gay, ha sviluppato in anni di osservazione della specie etero una tesi sulle milanesi col cerchietto, le ragazze-bene che vivono all’interno della cerchia dei bastioni (cioè nel centro storico della città), apparentemente frigide e in realtà dominanti sul povero maschio: «Varcata la cerchia, per esempio i bastioni di porta Venezia, l’uomo sa che nulla potrà. L’atteggiamento-chiave della ragazza-dentro-i-bastioni è: mi aspetto molto. La sua frase-di-fine-mondo è: «Ci sono rimasta male». Peggio che sentirselo dire, per il pover’uomo, c’è solo la prospettiva che lei lo dica alle sue simili con cerchietto: essere disapprovato dal Comitato delle Amiche è una condanna a morte. Io sono abbastanza convinta che sia un problema di fashionvittimismo: le romane, perlopiù, non riconoscono un Marni o un Chloé neanche guardando l’etichetta; le milanesi, con tutto quel che spendono per sembrare residenti nel Greenwich Village, non sono disposte a farsi stropicciare i vestiti dal primo che passa. E infatti, quando vogliono tirarsela, le romane ostentano ancor più il loro disinteresse per la moda: si vestono da suore laiche, vanno a vedere film iraniani, si atteggiano a prototipi di lauramorantismo in cerca del loro Nanni Moretti (che è lo scapolo più ambito in città da ormai parecchie generazioni).

FRANCESCO DOPO UNA VITA A MILANO, si è traferito nella parte più “bastioni” di Roma: i Parioli. L’altra sera è andato a cena con una romana, e la mattina dopo mi ha detto che gli sembrava una milanese. Quando gli ho chiesto quale dettaglio gli avesse fatto quest’impressione di straniamento geografico, mi ha riferito che lei rimestava nel piatto scomponendo il cibo senza metterlo in bocca, come centinaia di volte gli era capitato quando risiedeva nella città in cui le donne ordinano al massimo un sashimi, vivono in competizione con le modelle che invadono la città due volte l’anno, e il loro momento televisivo preferito degli ultimi anni è quello in cui Franca Sozzani disse a Daria Bignardi: «Non credo di aver mai mangiato un tiramisù». A un certo punto Francesco le ha fatto una battuta sulla sua inappetenza, e la romana, evidentemente in mood confessionale, ha risposto: «Se mangio, poi domani avrò i rimorsi tutto il giorno». Francesco si è sentito a casa. (Martina e Benedetta dicono che la parte migliore delle loro trasferte sentimentali a Milano era lo shopping: «Le 44 arrivano ai saldi: lì stanno grandi a tutte»).

Una cosa CHE MI HA SEMPRE COLPITO, NELLA scena single milanese, è il divieto di rimorchio. Hanno persino i bar per single (altro tentativo di fare i newyorkesi), epperò anche lì dentro è vietato rivolgersi la parola tra estranei. Chi lo fa, è talmente poco cool da risultare zero attraente. Mi è sempre sembrato il comma 22 delle relazioni: se tra single non ci si può rivolgere la parola, si resterà single a vita - no? Mi viene il sospetto che la regola valga solo per le donne; si sa che dagli anni 50 non è cambiato niente: bisogna lasciare all’uomo la prima mossa. Chiedo a Sebastiano, gay milanese, come funzioni nei single bar non etero, se siano più disinvolti, e lui sbarra gli occhi dicendomi che è «pochissimo giusta l’idea di parlare a uno che non conosci: al massimo ci si guarda molto». E poi si torna a casa da soli? «Certo, e ci si scrive su Facebook fingendo distacco: “Ah, ma eri per caso tu quello al Mono l’altra sera? Non ti avevo mica riconosciuto...”». Mi viene in mente che ho un amico romano, eterosessuale, che passa il suo tempo in chat con una milanese, e non concludono mai. Indago per capire se sia la stessa dinamica, e lui mi dice che è troppo pigro per prendere il treno dell’amore. Suggerisco che potrebbe venire lei, e lui mi guarda stravolto: «Ma sei matta? Ma pensa che responsabilità, questa viene a Roma solo per me... No, no: non se ne parla». Mi ricordo che il milanese pretendeva trovassi sempre scuse (interviste da fare, amiche da visitare) per andare a Milano, in modo da non sentirsi troppo caricato di aspettative eccessive del tipo «Siccome avremmo una storia, verrei a passare qualche giorno nella tua città». E allora penso una cosa banale: che ci sono tre ore mezza, seicento chilometri, differenze nella qualità del sashimi e nella reperibilità dei capi Marc Jacobs, ma a Milano e a Roma gli uomini sono stronzi uguale.