A parlarne per primi - e chi se non loro - sono stati i filosofi. David Hume, nel suo Trattato sulla natura umana, collocava il significato della simpatia al centro dell’intero mondo delle relazioni, sostenendo che “nessuna qualità umana è più notevole, sia in sé sia nelle sue conseguenze, dell’attitudine che abbiamo a simpatizzare con gli altri”. Un’espressione come “mi è simpatico!” è una di quelle che usiamo sin dall’infanzia, associandola sempre a incontri gradevoli e a situazioni positive, ma cos’è veramente la sensazione di simpatia? Perché possiamo provarla anche per chi è pieno di difetti e - soprattutto - perché essa è il collante essenziale dello stare insieme? A queste domande ha cercato di dare una risposta il dottor Andrea Stracciari nel suo nuovo libro, Perché siamo (o non siamo) simpatici (9,35 euro su Amazon), pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. La simpatia (come l’antipatia) - si legge - governa le nostre relazioni interpersonali, le nostre scelte e decisioni, è un argomento universale, un meccanismo proprio della natura umana che stimola l’interesse scientifico, speculativo e culturale non solo dei filosofi, ma anche di psicologi, sociologi, antropologi e medici. “Siamo di fronte ad una parola che tutti abbiamo pronunciato e pronunciamo sin da piccolissimi - spiega Stracciari, per anni dirigente neurologo presso il Policlinico Universitario Sant’Orsola Malpighi e docente di Neurologia e comportamento presso l’Università di Bologna - una di quelle che evoca sensazioni positive di gradevolezza, facilità nelle relazioni, desiderio di comunione e affiliazione.

Il termine simpatia ha significati diversi a seconda del contesto, ma quello più diffuso la definisce come un’inclinazione naturale, un’attrazione istintiva che proviamo verso persone, cose e idee che ci piacciono e/o soddisfano i nostri gusti e le nostre tendenze. In ambito medico apparve nel XVII secolo, in particolar modo legata all’isteria e agli studi fatti in tal senso dal medico inglese Edward Jorden (ricordate l’esilarante interpretazione che ne fece Rupert Everett in Hysteria di Tanya Wexler?) che nel suo primo trattato sull’argomento scrisse che “l’isterismo è provocato dalla matrice o ventre donde le principali parti del corpo per simpatia soffrono accordandosi diversamente alla diversità delle cause e delle malattie da cui è colpita la matrice”. In sostanza, una “reciproca compassione” collega le diverse parti del corpo che soffrono “in simpatia” con la sede primitiva del male. In ogni caso, il termine deriva dal greco, Sympatheia, il “patire insieme”, il “provare emozioni con”, un termine che è usato proprio per definire la condivisione di sofferenza o infelicità, anche se è vero che nell’uso e nel linguaggio comune esso tende a riferirsi a emozioni positive. Non è però un’emozione, come erroneamente si crede, ma appare come qualcosa di diverso e di più complesso. La simpatia non è nemmeno un sentimento, ma pur sempre un sentire e può riferirsi ad una razionale condivisione di ideologie. Simpatici, si nasce? - viene da chiedersi. “L’istinto di simpatia è innato nell’uomo, è necessario all’esistenza e all’armonia del corpo sociale e la soddisfazione di esso deve essere annoverata tra i nostri più imperiosi bisogni”, spiega Stracciari. Se è vero, dunque che la natura inspira questa tendenza a tutti gli uomini, è anche vero però che non lo fa mai in egual misura. Quel che è certo è che è un meccanismo che nasce quando i sentimenti o le emozioni di una persona provocano simili sentimenti o emozioni anche in un’altra, creando uno stato di sentire condiviso. Quando entriamo in contatto con una persona per la prima volta, difficilmente non ne siamo coinvolti: quello che compiamo non è un meccanismo razionale e utilitaristico, ricorda l’autore. “Se qualcuno ci sta simpatico è perché quella persona sembra che abbia, fin dal primo impatto, affinità ideali o idealizzate con noi”.

Quel che conta, stando agli studi del filosofo Max Scheler (1874-1928), è il sentimento di comprensione che fa sì che la stessa sia vista non come stato affettivo implicante fusione con altro o contagio emotivo, ma come funzione di partecipazione consapevole che non necessariamente equivale a condivisione. Ciò significa che la simpatia nasce dalla conversione dell’idea della passione altrui in un’impressione che ci coinvolge, che a sua volta si trasforma in una conoscenza. Non bisogna confonderla con l’empatia - perché quest’ultima, come spiega Laura Boella nel suo libro Empatie, non è governata dall’etica della solidarietà e della fratellanza, ma dal movimento e dal rischio verso l’alterità dell’altro, verso le nuove emozioni, i nuovi pensieri e desideri generati dall’incontro sensibile e corporeo tra due esseri umani - né è da confondere con l’antipatia che è il suo esatto e speculare contrario. Non è sintonia, condivisione, partecipazione, ma desiderio di allontanarsi, cancellare ed evitare per motivi (quasi) sempre soggettivi.

Essere simpatici è dunque un grande pregio e una persona attraente, gradevole, intrigante nell’aspetto e nei modi - insomma, una persona simpatica - ha più probabilità di riscuotere un certo successo sociale. La domanda che si pone il filosofo è se ci sia una differenza nel cervello di queste persone rispetto a tutte le altre. “La vista di un volto attraente, gradevole, piacevole, ben disposto, potenzialmente amico e simpatico - tiene a precisare - è per noi umani ciò che il cibo è per il topo: una ricompensa”. In quel momento si attivano i circuiti cerebrali dopaminergici implicati proprio all’aspettativa della ricompensa e quell’attivazione distoglie il nostro giudizio in direzione positiva e consideriamo - senza volerlo - le persone simpatiche e attraenti più brillanti, più meritevoli e degne della nostra fiducia. Attenzione però, ammonisce Stracciari, a non esagerare con la simpatia. L’eccesso - sia esso di un sapore, di un gusto, di un’emozione - può diventare stucchevole e la simpatia stessa, a tutto questo, non fa eccezione. “È un falso merito, tipicamente italiano”, viene detto nel film Ovosodo di Paolo Virzì. “In Francia o in Inghilterra non ci tengono mica così tanto a restare simpatici, ma ad avere meriti reali. Solo gli stronzi sono simpatici”.