Lungo le strade della Little Italy of the Bronx, cugina della più nota Mulberry Street di Manhattan si susseguono, sartorie, negozi di scarpe e di arredamento, pasticcerie e soprattutto ristoranti. Siamo a 20 minuti a piedi dall’ultima fermata della metro di Fordham Road Station e l’atmosfera che anima il quartiere è diversa da quella respirata downtown. Tra i passanti si sente parlare l’Italiano e l’accento di Anna suona subito familiare. Anna ci invita per un caffè; arriva dalla Costiera Amalfitana e si è trasferita nel 1978, quando aveva 19 anni. Nonostante sia soddisfatta della sua vita americana e contenta delle opportunità che il paese ha offerto a lei e ai suoi figli «ci sono momenti in cui la nostalgia mi prende lo stomaco» ci racconta seduta accanto alla grande cristalliera in legno massello. Per questo ogni volta che può, torna in Italia, in vacanza o a trovare i vecchi amici «ma non potrei viverci. L’Italia non saprebbe offrirmi le stesse possibilità» ammette. Per anni ha condotto la trasmissione Profumo di Napoli proponendo agli ascoltatori di ICN radio, emittente dedicata alla comunità italo-americana, un’accurata selezione di canzoni partenopee.
Il senso di appartenenza e il radicamento nella città sono centrali nell’identità degli italo-americani che furono capaci di portarsi dietro, come valigie, usi e costumi da oltre oceano. Feste patronali, processioni e celebrazioni religiose continuano ad animare i quartieri di New York sulla base del del paese di provenienza. A Williamsburg, soltanto a qualche isolato di distanza, ci sono il Club San Cono di Brooklyn devoto al Santo protettore del Comune di Teggiano e la società Our Lady of The Snow che raccoglie gli emigrati provenienti da Sanza; entrambi i paesi sono in provincia di Salerno. Per aiutarsi in una città straniera e non sempre accogliente alla fine dell’Ottocento sono nate le società di mutuo soccorso legate ai luoghi di origine. Ancora oggi i circoli hanno una funzione essenziale nel tessuto urbano e sociale del quartiere. Organizzano celebrazioni e feste e sono luoghi di aggregazione in cui respirare odore di casa, lo stesso profumo che gli iscritti, perlopiù anziani, lasciarono cinquanta o sessanta anni fa.
I ricordi della Dolce Vita si affievoliscono di fronte all’evoluzione senza sosta che caratterizza la città di New York: a Williamsburg interi palazzi costruiti dagli italiani alla fine del XIX secolo ora valgono milioni di dollari. La gentrificazione sta cambiando il volto del quartiere che si trasforma in una della aree più cool di New York City, pronta ad accogliere nuovi residenti da ogni parte del mondo. Così, da un lato ci sono il grande Apple Store, Starbucks, Whole Foods Market, dall’altro i Leftovers, ovvero coloro che rimangono a vivere ancora a pochi passi l’uno dall’altro, che si incontrano al bar o al club per giocare a carte, che passeggiano lungo le vie di un quartiere che pare quasi non appartenergli più. Ma che, inconsapevolmente, continua ad offrire scene vita che attraggono turisti e residenti.
Fortunato Brothers Cafè Pasticceria, 289 Manhattan Avenue, è l’unico posto dell’area rimasto «laptop free» racconta orgoglioso Mike Fortunato; dentro il laboratorio Francesco, il fratello - arrivato da Nola, in Campania, nel 1976 - stende la pasta ogni martedì, mostrando la dovizia e la velocità con cui le sfogliatelle prendono forma. Seduti ai tavoli non ci sono giovani con i soliti smartphone e computer che si connettono al wifi, ma uomini attempati con la tazzina di caffè espresso che chiacchierano fitto. Si chiamano Geppino, Giuseppe, Michele, Mario, Leonardo e Cono. Leonardo ha 92 anni, è nato a New York da genitori Italiani, di Castellaneta in Puglia, e mescolando un italiano incerto con un inglese sicuro ci dice: «senza questo posto sarei morto, attraverso la strada e vengo qui ogni giorno. E’ il mio rifugio». Geppino saluta i compagni scherzando e se ne va: «torno a lavorare, altrimenti a voi qui chi vi mantiene?»
Chi sono davvero gli italoamericani di oggi? Secondo le statistiche del 2017 quelli che vivono nei cinque borough sono circa 527,120 e, come spiega il professor Joseph Sciorra - direttore al John D. Calandra Italian American Institute, Queens College - non costituiscono una singola comunità ma l’accostarsi di una pluralità di esperienze determinate dai differenti vissuti, dai luoghi di provenienza e di residenza, dall’educazione, dall’ideologia. Tra gli italo-americani che vivono a New York, provenienti soprattutto - ma non soltanto - dall’Italia del Sud la lingua è un forte collante sociale: un interessante slang combina il dialetto del paese d’origine con i neologismi dettati dalla necessità. Ecco che “basamento” deriva dall’inglese “basement” ed indica la cantina. Quasi tutti hanno imparato l’americano per strada o seguendo i corsi serali gratuiti, dopo la giornata di lavoro. Seduti sul divano di casa Reynolds, Teresa ci racconta di sua zia che, approdata a New York senza conoscere neppure una parola di inglese, ogni mattina, senza perdersi d’animo, continuava a spostare i fagioli da una tasca all’altra della giacca: le servivano per calcolare il numero delle fermate del bus che la separavano dalla fabbrica di tessuti in cui aveva trovato lavoro.
Dopo l’Unità di Italia vi fu la prima grande migrazione per rispondere alla richiesta di manodopera non specializzata di una New York in fortissima crescita. Superato lo sbarramento di Ellis Island, gli italiani - non senza difficoltà - diventarono i nuovi newyorchesi. Accolti prima a casa di familiari, amici, “compaesani”, conoscenti per poi spostarsi a qualche metro o qualche block più avanti (o “blocco” come dicono qui), fondarono l’una dopo l’altra le Little Italies. Un successivo flusso di migranti è arrivato nel secondo dopo guerra ed ora, con la crisi economica di questi anni in Europa, si assiste a una terza ondata. «Gli italiani residenti a New York danno ancora una mano a chi si trasferisce» ci racconta Mario, titolare del Mario & Sons Meat Market mentre presenta suo nipote, atterrato proprio qualche giorno fa. «Ma la situazione è molto diversa da quando arrivai con la mia famiglia, nel 1962, e all’aeroporto trovammo una schiera di compaesani ad accoglierci».
Le II e III generazioni di italo-americani sono inserite nella vita americana: cittadinanza, posizioni lavorative di prestigio. Molti non ricordano o non conoscono l’Italiano ma resta forte il senso di identificazione culturale. E se la maggior parte di chi ha una certa età racconta di aver sposato un coniuge di origine italiana, spesso proveniente dallo stesso paese, incontrato, però, a New York, le famiglie dei loro figli possono, invece, dirsi propriamente americane. «Chi arriva ora» ci racconta Valentina, 25 anni, «non cerca di rivivere l’atmosfera di casa oltre oceano ma è perfettamente capace di inserirsi in una realtà urbana globalizzata».
L’integrazione è avvenuta e la fusione tra le due culture - italiana ed americana- ha originato una nuova complessa identità. Così al Keste Wall Street, a guardare Napoli-Juve con pizza e birra non ci sono solo italiani, o italo-americani, ma supporter di ogni nazionalità che vogliono vedere la partita. Lo stesso accade nelle tradizionali Little Italies spesso trasformate in attrazioni turistiche o nuovo risultato di un’interessante metamorfosi: accanto alla statua della Madonna spunta un nuovissimo building e la Festa del Giglio - attraverso un sistema di sfilate, mostre dell’artigianato, fiere culinarie che circondano la celebre processione della Torre - diventa capace di far rivivere all’intero quartiere la devozione campana per San Paolino Vescovo di Nola e per la Madonna del Monte Carmelo.
Davide Greco da dietro il bancone del Mike’s Deli, gastronomia di autentici prodotti Made in Italy, all’interno del Mercato Coperto di Arthur Avenue, racconta come il quartiere sia migliorato. «Lella Alimentari, aperto nel 2015 dal riminese Massimiliano Nenni, è un punto di riferimento per le nuove generazioni di italiani (e non) che frequentano Williamsburg» spiega ancora J. Sciorra. E il futuro sarà sempre più complesso. Gli italiani del 2019 che arrivano a New York da un lato trovano tuttora ancoraggio e sicurezza nelle tradizioni, nella cultura e nei legami che gli italo-americani hanno saputo costruire oltre oceano, dall’altro sono una generazione aperta, smart e pronta a inserirsi in questa società connessa.