“Ogni volta che mi svegliavo, che fosse notte o giorno, scendevo nell’ingresso pieno di marmo e luce del mio palazzo e mi trascinavo fino all’angolo dell’isolato dove c’era una bodega che non chiudeva mai. Prendevo due bicchieroni di caffè con panna e sei dosi di zucchero ciascuno, tracannavo il primo nell’ascensore che mi riportava su in casa e poi sorseggiavo piano il secondo. Mentre guardavo film sgranocchiando salatini a forma di animali prendevo un po’ di Trazodone, Ambien e Nembutal fino a riaddormentarmi. Quando mi veniva in mente di mangiare, ordinavo qualcosa al ristorante Thai di fronte, o un’insalata di tonno dal diner sulla First Avenue. Spesso al risveglio trovavo sul cellulare messaggi vocali di parrucchieri o estetisti che chiedevano conferma di appuntamenti che avevo preso mentre dormivo. Richiamavo sempre per cancellarli, anche se detestavo farlo perché detestavo parlare con la gente”.

La protagonista senza nome che Ottessa Moshfegh, giovane e promettente scrittrice statunitense, ci racconta ne Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli, trad.ne di Gioia Guerzoni) – il suo primo romanzo, già osannato dalla critica e dai lettori americani- è una quarantenne newyorchese ricca e annoiata della sua vita. Non sa cosa fare perché – come tutti quelli del suo status senza arte né parte – ha avuto tutto sempre pronto o già sistemato per lei da qualcun altro. Scuole giuste e, quindi, frequentazioni e connections - come si dice da quelle parti - giuste, niente problemi di affitto da sempre, una grande casa nell’Upper East Side, domestici, carte di credito senza limiti, viaggi, cene e quant’altro, un lavoro da “sottoposta annoiata” all’interno di una galleria d’arte - moderna e contemporanea, ça va sans dire - che richiede un minimo sforzo per dare il massimo (“ero la stronza che stava seduta alla scrivania e ti ignorava quando entravi”, dirà), storie alternanti e alternative, una laurea alla Columbia, vestiti e accessori firmati dai stilisti più in voga o all’avanguardia, vintage e non. Eppure - si sa - anche i ricchi piangono e hanno problemi e una come lei - magra, alta e bionda, bella, bellissima come una Gwyneth Paltrow qualunque (che è nata e vissuta per molti anni proprio in quel quartiere della Grande Mela) - non è da meno. Quello che vive quotidianamente è – nonostante tutto – un grande vuoto dovuto alla perdita di entrambi i genitori e al modo in cui la tratta il fidanzato (oramai ex) Trevor che lavora a Wall Street. Per questo decide di licenziarsi (del resto, perché lavorare cinque ore al giorno per “soli ventiduemila dollari l’anno”?) e di imbottirsi di quei farmaci (e di molti altri) per dormire il più possibile.

Dormire, sì, un qualcosa che più di ogni altra può darle altrettanto piacere e libertà, il potere di muoversi, di pensare e di immaginare standosene così al sicuro dalle miserie della sua coscienza da sveglia. Non è narcolettica, ha sempre adorato dormire, soprattutto con sua madre. “Andavamo perfettamente d’accordo dormendo”, ricorderà, anche perché quella donna poteva offrirle solo quello, non essendo per nulla in grado di fare altro, ad esempio di restare ferma a guardarla disegnare, di giocare o di passeggiare insieme nel parco, figuriamoci fare le torte. Stavolta però, la nostra giovane, bella, ricca e annoiata, decide di dormire un po’ di più, di riposare per un anno di fila per non provare più nessun sentimento e (forse) guarire. “Volevo sentire le cose”, spiega, “sto prendendo tempo”. Un po’ come è successo alla madre di Teresa Ciabatti e da lei raccontato nel suo romanzo La più amata, finalista allo Strega. Tanto, che problemi ha una come lei visto c’è sempre qualcuno che le porta i vestiti puliti, piegati e profumati, mutande escluse però, perché quelle vanno buttate nella spazzatura (il rumore della lavatrice può infastidire il sonno)? Niente confusione con le bollette che sono addebitate sul conto corrente o con il rinnovo di volta in volta del sussidio di disoccupazione, perché basta dire “sì” a una voce elettronica a telefono e il gioco è fatto. Inizia così (dal giugno del 2000, quando aveva 26 anni) la sua ibernazione, avallata, ovviamente, dalla dottoressa Tuttle, una psicologa svitata da trecento dollari l’ora, l’unica che ha risposto a una sua chiamata alle undici e mezza di notte per prendere un appuntamento. Quando la “nostra” non dorme, vede film, tanti e mai poi così diversi (ha una fissazione per Whoopi Goldberg, la sua attrice feticcio), oppure passa del tempo (sempre troppo poco) con l’amica Reda, che non è ricca come lei e che non vive a Manhattan, è piena di problemi, a tratti simili, ma purtroppo è costretta ad affrontarli e a risolvervi in maniera completamente diversa.

“Non so indicare un evento specifico che mi aveva portato alla decisione di andare in letargo. All’inizio volevo solo un po’ di calmanti per cancellare pensieri e giudizi perché con la loro raffica continua facevo fatica a non odiare tutti e tutto. Pensavo che la vita sarebbe stata più tollerabile se il mio cervello fosse stato più lento nel condannare il mondo che mi circondava”.

I NARRATORI Il mio anno di riposo e oblio

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Sarebbe davvero bello – o forse no? - poter fare come lei che cerca di allontanare o non affrontare i mali del mondo assentandosi da tutto e da tutti grazie al suo meticoloso e faticoso programma di dormite continuate che la Moshfegh riesce a raccontarci in maniera tale da non detestarla mai, anzi – al contrario – in più di un passo riesce a farci scappare, addirittura, una sana risata. Sì, perché in questa storia, decisamente profonda quanto divertente, tutto è così surreale che in alcuni momenti si pensa che sia tutta una farsa, ma non è così. Il suo problema, le verrebbe in aiuto Valeria Bruni Tedeschi, esperta nell’avere e nel (non) risolvere i problemi “da ricca”, è proprio, come dicevamo all’inizio, “essere ricca”. Nel suo primo film, È più facile per un cammello, aveva un grande problema con la sua fortuna economica a tal punto da chiedere al notaio come fare per rifiutare un milione di franchi. La imita, a suo modo, l’eroina della Moshfegh, che chiede al suo avvocato patrimonialista se sia meglio “vendere o incendiare” la sua casa milionaria dell’Upper East, perché le risulta “complicata da gestire”. Essere troppo ricchi rende – a quanto pare –difficile la vita, anche se la stragrande maggioranza della gente penserebbe l’esatto contrario. Quello che proverete anche voi, leggendo questo libro pungente che è un’autentica rivelazione, è voler entrare proprio in quell’appartamento che lei tanto denigra, magari soffermarsi ad ammirare il panorama da quell’altezza, vedere cosa c’è e come è arredato, che libri legge a sua volta e che quadri o foto ci sono, per poi correre di corsa nella sua camera da letto - ma anche in cucina, nell’armadio, in bagno, perché si addormenta ovunque – e svegliarla, perché la vita è meno monotona di quanto si immagini, perché ci sono tante altre cose da poter fare se solo le si vuole, perché fuggire davanti a un ostacolo non è la soluzione, perché i problemi sono altri e con la noia, questo è sicuro, non hanno nulla a che vedere.