“Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
Nessuno è mai passato di qui con la nera nave
senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose”
(Libro XII, Odissea)

A scuola o per piacere, molti di voi avranno letto questo passo dell’Odissea in cui Omero inizia a raccontare uno degli episodi/simbolo della tanto celebrata sete di conoscenza di Ulisse che riesce a trovare il modo per subire il fascino delle sirene - che poi cattureranno la letteratura, l’arte e il mondo in tutte le epoche storiche successive - senza però subirne le conseguenze. La maga Circe, dopo il viaggio nell’Ade (Libro XI), l’aveva messo in guardia di questo pericolo e lui, seguendo i suoi consigli, ottura con la cera le orecchie dei compagni per sfuggire al pericolo di essere uccisi dalle sirene e si fa legare all’albero della nave senza rinunciare ad ascoltarne la voce, un canto che sembra una melodia che crea dipendenza in chi lo ascolta, che stordisce di dolcezza e calore come il loto e il vino, ma è più pericoloso perché cantando, promette di svelare tutto ciò che accade o è accaduto sulla terra portando morte e rovina nell’animo umano. Mentre i compagni remano con grande forza per oltrepassare il pericolo, le sirene lo chiamano Ulisse e lo invitano a rimanere con loro.

“Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
Nessuno è mai passato di qui con la nera nave
senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose “

Lui vorrebbe slegarsi, ma due compagni di viaggio, Perimede ed Euriloco, lo stringono all’albero ancora più forte ed è così che si salvano, proseguendo il viaggio verso Scilla e Cariddi. Stando alla tradizione accolta anche da Virgilio, Ulisse e i suoi le avrebbero incontrate su un gruppo di scogli a Sud della penisola di Sorrento, al largo delle Isole Sirenuse; stando ad altri, invece, l’incontro sarebbe avvenuto su un’isola tra Scilla e Cariddi nello Stretto di Messina. Quale sia la verità non è dato saperla, anche perché tutto quello che riguarda quel poema Omerico e in particolar modo le sirene, è affascinante proprio perché misterioso. “Lo incantano con limpido canto, adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa di uomini putridi, con la pelle che raggrinza”, scrive Omero che non si sofferma però mai sul loro aspetto fisico, perché era noto a tutti, anche grazie ai racconti mitici della tradizione orale, come le avventure di Giasone e degli Argonauti. “Siamo così perché lo siamo diventate, predatrici del mare per necessità, fameliche perché non abbiamo mai ricevuto nulla, un sorriso, una coppa di acqua che disseta, un’offerta da mani amiche”, scrive Marilù Oliva in L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre (Solferino), un libro che incanta, perché ribalta la prospettiva unica del racconto maschile, rappresentata da Ulisse e dai suoi compagni, preferendo quella femminile a più voci, dimostrando così che l’Odissea stessa è anche la storia d’amore di molte donne, sirene incluse. Esse non sono crudeli, perché il loro è “un vivere secondo le leggi di natura in un mare che amplifica ogni istinto”, aggiunge la scrittrice, e sono tra le prime a rendersi conto che Ulisse “è un eroe la cui intelligenza sa tessere orditi immaginifici”.

Marilù Oliva L'ODISSEA raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre

L'ODISSEA raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre

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Come sono fatte realmente? Cosa cantano e – soprattutto – perché piacciono così tanto? "Omero, come ricordato, non ce lo dice, ma per i greci, invece, erano donne-uccello, donne seducenti con zampe e code d’uccello, un’analogia che deriva, probabilmente, dal canto, leggiamo nell’Atlante delle Sirene di Agnese Grieco (Il Saggiatore), uscito qualche anno fa, e lo ricorda anche la Oliva. Nella mitologia sono invece il risultato di una metamorfosi punitiva delle ninfe, giovani ancelle distratte che vegliavano su Persefone nel giorno in cui Plutone la rapì. Nel repertorio mitografico dell’VIII secolo d.C, il Liber monstruorum de diversis generibus, c’è una precisa menzione delle donne-pesce, che sono bellissime e che seducono i marinai e da quel momento in poi molti bestiari si incaricheranno di tramandare questa versione del mito. Nell’arte romantica sono riprodotte ovunque, dai capitelli delle chiese ai bassorilievi fino ai mosaici, persino sui sarcofagi: bicaudate, hanno i capelli sciolti, la doppia coda aperta alzata ai lati del corpo e un atteggiamento sensuale. Il più antico esemplare esposto è quello di Cividale (XI secolo) e si tratta di una sirena che descrive la nuova simbologia della lussuria con le chiome sciolte e le code trattenute aperte sui lati del corpo dalle mani a mostrare i genitali. C’è poi un mosaico di Ravenna del 1200 in cui una sirena appare frontale, con le due code asimmetriche di pesce aperte ai lati del corpo e trattenute dalle mani, la chioma bionda e fluente ricadente sui fianchi fino alle braccia, il seno appena accennato. In età gotica poi, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, risale un cofanetto classense del XV secolo decorato con placchette raffiguranti la storia di Paride e anche qui, tra le figure mitologiche, ritroviamo le sirene associate alla bellezza e al piacere corporale. Nel mondo simbolista le sirene per metà donna e per metà pesce divennero le figure più popolari di una serie di creature femminili marine. Svincolate dalle trame narrative del mito, si fecero così portatrici della moltitudine complessità di un nuovo universo femminile in cui coesistevano il desiderio sessuale e la potenza dell’eros, la seduzione ingannevole, ma anche l’attrazione e la repulsione, l’elemento materno, la fierezza della donna moderna in grado di amare con libertà e consapevolezza e di soggiogare l’uomo.

Agnese Grieco Atlante delle sirene. Viaggio sentimentale tra le creature che ci incantano da millenni

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Queste figure mitologiche-religiose, che secondo il mito nascono da Acheloo, divinità fluviale, figlio di Oceano, capace di trasformarsi in esseri fantastici e terribili - da Forco, divinità marina, e da una delle nove Muse, Melpomene, da cui le sirene hanno ereditato la capacità di intonare canti melodiosi e ammaliatori, si chiamano Partenope, Leucosia e Ligeia (note anche come Aglaofeme, Molpe e Telsiepea) e ci affascinano da secoli. Se Hans Christian Andersen gli dedicò una fiaba nel 1837, la Disney uno dei cartoni più amati di sempre, La Sirenetta, e prima ancora un film, Splash, Una sirena a Manhattan, grazie a Ron Howard con una sensualissima Daryl Hannah. In questi giorni, poi, sono tornate ancora di più al centro dell’attenzione, oltre – e grazie – al libro della Oliva, anche grazie a Ulisse. L’arte e il mito mostra imperdibile ospitata ai Musei di San Domenico di Forlì fino al 21 giugno prossimo che va ad indagare il tema dell’eroe omerico e del suo mito che da oltre tremila anni domina la cultura dell’area mediterranea. Curata da Gianfranco Brunelli, direttore dei progetti espositivi, ospita ben 250 opere che vanno dall’antico al Novecento: dall’Ulisse di Sperlonga risalente al I secolo d.C. – immagine simbolo della mostra – alla Afrodite Callipige dell’antichità, da Il Concilio degli dei di Rubens alla Penelope del Beccafumi, dalla Circe invidiosa di Waterhouse a Le muse inquietanti di De Chirico, fino all’Ulisse di Arturo Martini e al cavallo statuario di Mimmo Paladino, di cui troverete un enorme esemplare tutto bianco sul piazzala davanti l’ingresso del museo. E poi ci sono loro, le sirene, a cui è dedicata una stanza apposita, una delle più belle e suggestive, visti i colori e i molteplici giochi di luce delle opere di cui sono protagoniste. C’è quella di Sartorio immersa in un abisso verde, quella del Waterhouse che si pettina la chioma rossa con le mani e quella immaginata e poi rappresentata dalla De Morgan, nuda e sensuale. Le ritroviamo ne l’Ulisse e le sirene (1867) di Léon Belly che è un chiaro omaggio al poema omerico, ne La sirena di Galloway (1810 circa) di William Hilton e ne Il pescatore (1860) di Anais Beauvais, oppure sulla rive del mare, in attesa di qualcuno o qualcosa, come la immaginò Benes Knupfer. Quella avvinghiata a Tritone, in Tritone e Nereide (1895) di Max Klinger, di cui solo avvicinandovi noterete i diabolici occhi rossi, ispirò non pochi film, ma le più belle sono sicuramente Le sirene (1901) di Cesare Viazzi: nude, sugli scogli o in mezzo al mare, fanno di tutto per aggiudicarsi la loro “preda”. Guardarle, come scrive la Grieco, “significa aprire gli occhi su un monstrum quasi familiare, trash perfino”, significa aprire gli occhi sul delicato passaggio tra corpo umano e corpo animale. Dato che vien men lo fren dell’intelletto, l’unica cosa è lasciarsi stupire.

UNIVERSALE ECONOMICA. I CLASSICI Fiabe e storie

Fiabe e storie

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