Uno dei finali più belli della storia del cinema è quello de i Quattrocento colpi di François Truffaut. C’è il piccolo Antoine, che corre. È appena fuggito dal riformatorio e cerca la libertà. Lo si vede attraversare il bosco, poi la campagna. Costeggia la strada provinciale, il muro di mattoni di una fattoria, il filo spinato. Lo fa sempre di corsa, senza mai fermarsi. Poi scende lungo una piccola collina e si trova davanti al mare. Mare che non aveva mai visto prima.

I Quattrocento colpi è uno dei primi film della Nouvelle Vague. Uno dei più belli e completi, perché anticipava quasi tutto. In particolare, si diceva che quello di Godard & soci sarebbe stato un cinema tutto di corsa. Dove correre significava essere fondamentalmente liberi. Niente regole, niente file indiane, niente schemi. Ma solo scatti improvvisi e avversari lasciati sul posto.

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Antoine Doinel di corsa ne I Quattrocento colpi

Nelle pellicole di quegli anni, siamo a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta, corrono praticamente tutti. Bambini e adulti. Corrono ad esempio i monelli del corto L’Età difficile, di Truffaut. Che ci racconta quanto crudeli possono essere a volte i più piccoli. Si sono innamorati di Bernadette e decidono di rendere la vita impossibile a lei e al fidanzato Gérard. Non ci sarà lieto fine. Corre ancora una volta Antoine, stavolta insieme all’amico Renè, per marinare scuola e fuggire dalla noiosa lezione di ginnastica organizzata fra le strade limitrofe a Place Clichy.

Corre ferito a morte Michel Poiccard (Jean Paul Belmondo). Lo inseguono per le vie di Parigi la polizia e l’amata Patricia (Jean Seberg), nello struggente finale di Fino all’ultimo respiro. Prima di morire il ladro guarda la donna, che commenta sconsolata: “Ci guardiamo fissi negli occhi, e non serve a niente”. E corre Ferdinand Griffon (ancora Belmondo), ex professore di spagnolo con il vizio delle rapine, ne Il bandito delle 11. Le forze dell’ordine lo braccano lungo una spiaggia del sud della Francia dove è scappato con Marianne (una meravigliosa Anna Karina) e lui si nasconde fra i pini a ridosso del mare.

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La corsa al Louvre nel film Bande à part, 1964

Corrono Odile, Arthur e Franz (Anna Karina, Serge Brasseur e Sami Frey) in Bande à Part, settimo lungometraggio dello stesso Godard, omaggiato anni dopo sia da Quentin Tarantino che da Bernardo Bertolucci nel suo The Dreamers. Percorrono il Louvre in nove minuti e quarantatré secondi “battendo il precedente record di Jimmy Johnson a San Francisco”, come recita la voce fuori campo. La Parigi in cui la storia si svolge è malinconica, esistenzialista. Ma quella corsa è una festa, una boccata d’ossigeno. Un momento di libertà totale, girato all’interno del museo più importante del mondo anche grazie al fatto che in quegli anni al Ministero della Cultura francese c’era André Malraux, uno che di certo non si sarebbe mai opposto davanti a un’idea così irriverente.

Corre per quasi tutto il film la piccola Zazie, protagonista del funambolico Zazie nel metrò di Louis Malle. Tutto va a duecento chilometri orari in questa pellicola del 1960 che sembra uscita dalla mente di Charlot. La bimba ha un sogno: viaggiare in metropolitana. Ci riuscirà solo alla fine ma, per uno scherzo del destino, sarà addormentata e non si ricorderà nulla.

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Il finale di Fino all’ultimo respiro, 1960

E corrono infine anche Jules e Jim, insieme a Catherine, su una passerella ferroviaria nel bellissimo film di Truffaut ispirato al romanzo autobiografico di Henri-Pierre Roché. Sfrecciano via spensierati e sembra non importagliene nulla che là fuori sta per scoppiare la Grande Guerra. “La vita era come una strana vacanza - dice a un tratto la voce narrante - Mai Jules e Jim avevano giocato una partita a domino così importante. Il tempo passava. La felicità si racconta male perché non ha parole, ma si consuma e nessuno se ne accorge”.

Tutti sono in movimento nella Nouvelle Vague, respirano vita e sembrano quasi volerci ricordare che le mura di casa che abbiamo fissato in questi giorni di coronavirus, di emergenza sanitaria e lockdown, non sono la norma, ma una parentesi transitoria.