Boys Don't Cry cantava Robert Smith, entrando negli anni Ottanta con una montagna di capelli cotonati, gli occhi truccati e il rossetto sbavato, mentre gli uomini avevano già iniziato a sfidare aspettative, percezioni, pregiudizi e quel rigido ideale di mascolinità, costruito, codificato, vissuto e rappresentato per secoli. I moti del 68 e dei rivoluzionari anni 70, i primi sussulti femministi e del movimento di liberazione LGBTQ, spingono intere generazioni di maschi a mettere in discussione archetipi e stereotipi che ne definiscono genere e identità. Dal vigoroso cowboy che cavalca il mito del West Americano a quello queer del Macho Man che balla al fianco del grande capo indiano con i Village People, il viaggio è lungo e costellato dalle molteplici forme assunte dalla mascolinità. Così tante, complesse e ricche di contraddizioni, da spingere la Barbican Art Gallery di Londra a guardarle dall’obiettivo di oltre 50 artisti, fotografi e registi di respiro internazionale con Masculinities: Liberation through Photography (13 luglio - 23 agosto 2020). Un ritratto collettivo della mascolinità contemporanea, composto da classici familiari e qualche rivelazione, per spostarsi con agilità dai contributi di Andy Warhol e Herb Ritts a quelli di Wolfgang Tillmans, dalla New York post Stonewall di Sunil Gupta che passeggia nella vivace Christopher Street, al patriarcato familiare messo a nudo (e in mutande) da Masahisa Fukase. Forse, anche nuove risposte a vecchie domande, mentre la playlist che da ritmo alla mostra canta Boys Don't Cry, tra It's A Man's, Man's, Man's World di James Brown e Smalltown Boy dei Bronski Beat. Il pomo d’Adamo può ancora rappresentare il polo della discordia e della distanza tra i generi?
Dalla copertina del catalogo ufficiale della mostra pubblicato da Prestel, lo scatto di Sam Contis, invita a liberarsi dall’immaginario tossico della mascolinità, e dalle sue dinamiche di genere, razza e potere, sfidate da sei decenni di progetti, realizzati da artisti uomini non binari, donne, queer, non necessariamente occidentali o bianchi. Le riflessioni scatenate da #MeToo, l'attivismo dei nuovi femminismi e diversi moti di emancipazione maschile, offrono il terreno più fertile all’analisi delle opere delle sei diverse sezioni della mostra, concepite per documentare come cambiano e possono essere messe in discussione le differenti declinazioni di mascolinità. La collettiva curata da Alona Pardo, nella stagione Inside Out del Barbican, parte dal corpo per toccare tutto quello che catalizza, dal nudo morbido e imperfetto sezionato da John Coplan, allo stile di vita alla ricerca dell’identità dalla Rebel Yout fotografata da Karlheinz Weinberger, stampata anche su t-shirt e shopper realizzati per la mostra, dopo aver ispirato collezioni di Versace e la passione smodata per fibbie e accessori vistosi.
La sezione dedicata al club privato per soli uomini, riflette sulla costruzione del potere maschile e tutte le sue contraddizioni, tra i ritratti celebrativi dell'élite americana del The Family di Richard Avedon e i Gentlemen di Karen Knorr, nel club che esclude le donne dai ruoli di potere durante il mandato di Margaret Thatcher a Downing Street. Una questione di razza, status e ricchezza. Allontanandosi da un solo ideale maschile con una molteplicità di mascolinità che lo rifiutano, la mostra dedica una sezione a smantellare gli archetipi di genere su wrestler, bodybuilder, atleti, cowboy e affini. Il corpo scultoreo di Lisa Lyon fotografata da Robert Mapplethorpe è esposto al fianco di Arnold Schwarzenegger e i teneri ritratti di Rineke Dijkstra, mentre Time Laps dell’artista trans Cassils documenta la radicale trasformazione dei loro corpi con steroidi e il duro programma d’allenamento che ripensa l'idea di mascolinità senza l'uomo.
A rileggere il mito del cowboy provvede la prospettiva intima della Deep Springs di Sam Contis, mentre l'interminabile conflitto in Israele documentato da Adi Nes, rappresenta il lato più indifeso dei suoi Soldier, vissuto di persona nell'esercito israeliano. I combattenti Taliban di Thomas Dworzak, realizzati con ritratti trovati negli studi fotografici di Kandahar in seguito all’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001, con la lunga tradizione di abbigliamento raffinato e riti cosmetici degli uomini di Kandahar, si concedono anche pose mano nella mano tra sfondi azzurri, fiori e pistole. Quante battaglie può combattere il khol (o kajal)?
L'origine di ogni bene e di quasi tutti i mali del mondo resta in famiglia e la sezione concentrata sulle sue dinamiche, ne scardina il patriarcato con l'invecchiamento della figura maschile. Il perno del celebre The Family, 1971-1990 di Masahisa Fukase, in equilibrio tra il rapporto padre-figlio di Duane Michals, la relazione padre-figlia di Aneta Bartos e la frattura dell'egemonia paterna nell’analisi critica di Anna Fox. Anche il Black Body reclama la sua sezione, con gli autoritratti di Samuel Fosso nei panni degli uomini africani di potere e la mascolinità nera che sfida lo status quo, tra la mercificazione dell'esperienza maschile afroamericana messa a fuoco da Hank Willis Thomas e i prestanti padri neri che allattano i loro figli sfidando simboli e cliché con Sons of Cush di Deana Lawson. Il corpo di lavoro sensuale di Rotimi Fani-Kayode dialoga anche con la sezione aperta alla mascolinità queer e alla carica politica della sua estetica.
La sezione riflette bene le contraddizioni della sua visibilità pubblica, rappresentata dal fotografo e attivista Sunil Gupta con gli scatti della vivace cultura gay degli anni settanta a New York, ancora illegale nell’India fotografata un decennio più tardi, ufficialmente reato in circa 68 paesi del mondo ancora oggi. Questo nonostante Gay Semiotics di Hal Fischer, ispirandosi all’indagine sociale di August Sander, nel 1977 documenti un modo di essere uomini e vivere la mascolinità, analizzando il linguaggio visuale della comunità gay di San Francisco, negli anni che precedono l’epidemia di AIDS. Negli anni Ottanta la macchina fotografica di Peter Hujar e il ritratto che scatta a David Brintzenhofe, iniziano a mettere a fuoco le evoluzioni dell’identità di genere e il makeup che va bene per tutti.
Negli anni Novanta, esplorando la sua comunità LGBTQ sulla costa occidentale degli Stati Uniti, Catherine Opie fotografa amiche e modelle, con tatuaggi, baffi e accessori che sfidano gli stereotipi di genere maschili, esaltando al massimo le stranezze del cliché del macho. Il progetto inverte le dinamiche di potere nella gerarchia di genere, in sintonia con la sezione di sguardi femminili che riflettono con una certa ironia sulle dinamiche del suo rovescio e la sessualità maschile oggettivata come quella femminile. Le complesse evoluzioni dei femminismi, inquadrano l’uomo ideale con l’obiettivo di Hans Eijkelboom e, di nascosto con quello di Annette Messager, anche il cavallo dei loro pantaloni. Il linguaggio corporeo maschile e femminile del progetto enciclopedico di Marianne Wex, affianca la documentazione degli uomini che fischiato a Laurie Anderson mentre cammina per il Lower East Side di New York con Fully Automated Nikon (Object / Objection / Objectivity), mentre il film di Tracey Moffatt spoglia il corpo dei surfisti della loro muta. Cosa succede quando iniziano a guardare gli uomini come le donne? La mostra nasce dalle domande che gli artisti e la società hanno posto al dibattito di genere in corso negli ultimi decenni. Le risposte sono ovunque e, insieme alle dinamiche sociali e culturali, continuano a ridisegnare la mascolinità contemporanea.