Anna, pre-adolescente, risponde a una catena telefonica che la invita a raccontare qualcosa di sexy in un audio-messaggio di un minuto: l’audio arriva ai compagni e lei diventa lo “zimbello” della scuola. Giulia, 11 anni, registra un innocuo balletto su TikTok, posta video e immagini che vengono scaricate, modificate e diventano oggetto di derisione su una chat di amici. E poi c’è Francesca di appena 10 anni che su WhatsApp partecipa all’innocente (almeno in apparenza) challenge sulla più bella della classe e si accorge di non piacere a nessuno. E ci sono anche Laura e Cecilia, amiche del cuore, che scoprono di essere state fotografate senza consenso durante le lezioni in Dad e che le loro immagini girano sui social insieme a commenti che le deridono.

I nomi sono inventati, le storie no. Sono storie di bambini e di pre-adolescenti raccolte da Di.Te., l’Associazione nazionale dipendenze tecnologiche, gap e cyberbullismo. Resoconti quotidiani di genitori che chiamano per chiedere aiuto, aumentati esponenzialmente dall’inizio della pandemia. Perché la Dad, i lockdown e le poche relazioni sociali dei ragazzi hanno incrementato il verificarsi delle aggressioni e molestie via rete.
«I casi nell’ultimo anno sono quasi raddoppiati - spiega Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario e presidente di Di.Te. - la sovraesposizione ai device, la didattica a distanza, l’isolamento, la mancanza di attività ricreative e di sport hanno aumentato la frequenza di questi episodi. Soprattutto ora che l’accesso alla rete avviene intorno ai 10 anni e il primo smartphone viene regalato intorno ai 9: decisamente troppo presto». In pratica, bambini che maneggiano strumenti da grandi e frequentano social vietati sotto i 14 anni non conoscono ancora il potenziale dei mezzi in loro possesso e li usano a sproposito: «Si verifica quindi che i più piccoli inizino a prendere in giro i coetanei e i più grandi facciano ghosting, revenge porn, manipolando foto e video e ripubblicandoli sui social. Senza considerare la gravità del fatto che queste immagini possono rimanere nel web per sempre».

I numeri di una ricerca condotta a dicembre scorso dalla stessa Di.Te. col portale Skuola.net e il dipartimento di Ingegneria informatica dell’Università Politecnica delle Marche, lo confermano: su un campione di 3.115 studenti (tra gli 11 e 19 anni) intervistati, 1 su 8 dichiara di essere stato vittima di cyberbullismo; 1 su 8 preso in giro durante le lezioni online.

«Il cyberbullismo nei bambini e nei pre-adolescenti appartiene a quei comportamenti maldestri, impulsivi, estemporanei e funzionali - aggiunge Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e docente universitario - che si sviluppano tipicamente in situazioni non coinvolgenti, e la Dad ha mostrato le sue falle: davanti allo schermo spesso i ragazzi si annoiano e considerano divertente fare scherzi a portata di click, credendo di richiamare l’attenzione degli altri. Si muovono in modo superficiale, come in un paese dei balocchi, senza valutare le conseguenze delle loro azioni».

Davanti allo schermo i ragazzi si annoiano e fanno scherzi per richiamare l’attenzione

Se possiamo ipotizzare che dietro a uno schermo molti si siano sentiti più protetti, ora la realtà chiede il conto mostrando la fragilità della loro età contro la violenza dei loro comportamenti: molti ragazzi non vogliono più uscire di casa, hanno paura e si autoisolano. E sono, sempre secondo la ricerca, il 45,9% degli intervistati tra gli 11 e i 13 anni, il 53,4% tra i 14 e i 16 anni, e il 65,9% tra i 17 e i 19 anni.

«Quando sei in classe, nella vita reale, un gesto stupido è visibile a tutti e può essere contenuto, a casa tua no», aggiunge Pellai.
«Spesso i professori lamentano che i ragazzi in Dad sono assenti: bisogna ricordare che il cervello dei pre-adolescenti davanti a un monitor che non li “aggancia” perde il contatto e per mantenerlo vivo i ragazzi si rivolgono al cellulare cercandovi gli effetti speciali e le azioni continue di cui hanno bisogno per sentirsi attivamente sollecitati. Ovvio che in questo uso compulsivo e compensativo si nascondono le insidie più temute».
Senza contare lo sforzo di rimanere in casa fermi alla scrivania: «Il rischio è di minare lo sviluppo cognitivo che passa attraverso il confronto con gli altri - aggiunge Lavenia - che nella Dad è un’illusione: nella lezione a distanza il corpo è bloccato davanti a uno schermo, ma dentro “si muove” secondo processi neurofisiologici. Questa enorme energia da qualche parte deve essere incanalata».

Difficile anche per i più piccoli in classe, seduti nei banchi ma con una mascherina sul volto, distanziati. «L’empatia non verbale è garantita solo dallo sguardo - prosegue ancora Lavenia - e se togliamo il movimento, la mimica facciale, se non ci si può toccare, abbiamo cancellato buona parte dello sviluppo cognitivo ed emotivo dei bambini. Temo che, quando finirà la pandemia, dovremo lavorare per rimpadronirci di tutto ciò».

E allora i genitori che cosa possono fare? «In questa tempesta il loro ruolo è come quello dei capitani coraggiosi», termina Pellai. «Ogni mattina devono salire in barca, metterla in movimento, essere vigili e ribadire le regole fondamentali del comportamento in Dad e sull’uso dei device. Non bisogna avere paura di risultare dei rompiscatole: è un compito tipico dei genitori e i figli se lo aspettano. E se non si riesce ad affrontare la situazione da soli, si può provare a “gemellarsi” con un’altra famiglia con un bambino di pari età del proprio: lo scambio di esperienze e di strategie di difesa aiuta». Una regola comunque è ormai chiara e condivisa da tutti gli specialisti del settore, come sintetizza Lavenia: «I genitori devono pretendere di conoscere la password dello smartphone dei propri figli, bambini o adolescenti che siano: la favola della privacy qui non esiste».