In questi giorni in campo San Giacomo Dall'Orio si possono ascoltare i passi della gente. C’è chi, particolarmente sensibile, riesce addirittura a capire se l’incedere è quello di un uomo o di una donna. Su Riva degli Schiavoni, poi, solitamente caotica e cosmopolita, la lingua ufficiale è da mesi sempre e solo il veneziano, che qui chiamano “dialeto del mar”. Inutile spiegare perché.
Lo scrittore americano Truman Capote diceva che visitare Venezia «è come mangiare una scatola di cioccolatini al liquore tutta in una volta». Ma la Venezia deserta e sconsolata di quest’ultimo anno non ha proprio nulla di dolce. Da secoli invasa dai turisti, la città è stata uno dei simboli più scioccanti della pandemia globale. Ha vissuto un anno in solitaria, come un velista in mezzo all’Oceano. Ma ora che la traversata sembra agli sgoccioli, si prepara a tornare alla sua normalità. C’è anche una data per questa rinascita: quella di sabato 22 maggio, giorno in cui si inaugurerà la Biennale di Architettura ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera. Non c’è nulla di più simbolico o di più rituale. Anche il titolo dell’edizione di quest’anno sembra essere al passo coi tempi: How Will We Live Together? Come vivremo insieme? Come torneremo a stare l’uno accanto all’altro, dopo aver sospettato di tutti? Il tema lo ha scelto il curatore Hashim Sarkis, invitando gli architetti «a immaginare spazi nei quali vivere generosamente insieme». Grazia e gentilezza, dopo tanto buio. Venezia dunque si riapre al mondo, e noi con lei. Così, finalmente, torniamo a pianificare un viaggio, un weekend dopo mesi di confinamento.
Il programma è intenso. A partire dalla mostra internazionale, che si articolerà attraverso le idee di 114 partecipanti in concorso in arrivo da 46 Paesi. È un tour che tocca cinque aree tematiche, che Sarkis ha voluto chiamare “scale”: Among Diverse Beings, As New Households, As Emerging Communities, Across Borders e As One Planet. Mentre le partecipazioni nazionali ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico sono in tutto 63. Quest’anno, rispettando l’invito del curatore di origine libanese, non saranno solo gli umani a “vivere generosamente insieme” ma anche le discipline. Come l’architettura e il ballo, che dal 23 luglio al primo agosto si fonderanno in un programma innovativo. La Biennale, insieme al Festival Internazionale di Danza Contemporanea, ospiterà all’Arsenale diversi coreografi che, guidati dal direttore artistico Wayne McGregor, creeranno volteggi ispirati ai temi della mostra d’architettura. Ma non solo. La città sarà invasa anche da diciassette eventi collaterali che coinvolgeranno, fra gli altri, Palazzo Zen a Cannaregio e i Cantieri navali di Castello, l’Isola di San Giorgio e quella di San Servolo. Uno degli appuntamenti da circoletto rosso è allestito all’Espace Vuitton, proprio a due passi da San Marco.
Fino al 21 novembre lo spazio espositivo di Calle del Ridotto ospita la mostra Charlotte Perriand and I, tour sognante e un po’ rétro dove i lavori (e i magnifici ritratti sbiaditi) della designer parigina dialogano fino quasi ad amoreggiare con quelli dell’archistar Frank Gehry. Il tutto sotto lo sguardo attento del curatore David Nam. È la prima tappa del nostro cammino. Percorrendo poi Calle della Frezzaria, dove nel ’400 si fabbricavano le frecce per le balestre, si giunge fino a Calle Drio la Chiesa, dove c’è la sede veneziana della prestigiosa Victoria Miro Gallery. Qui, dal 19 maggio al 10 luglio, va in scena la mostra The Pattern of Absence di Conrad Shawcross. Un po’ alchimista e un po’ architetto, l’artista londinese realizza una serie di installazioni ispirate alla natura. Mixa geometria e filosofia, metafisica e architettura, creando inaspettati cortocircuiti emotivi.
La meta successiva è Punta della Dogana. Ci si arriva in vaporetto dopo aver costeggiato il Teatro La Fenice e attraversato sottoporteghi, calli e ponticelli. La location della collezione Pinault fa da cornice a uno degli eventi artistici più importanti del 2021: la mostra Contrapposto Studies, dedicata a Bruce Nauman, gigante della videoarte americana. Inizialmente prevista per il 21 marzo, la personale è stata rimandata al 23 maggio a causa del lockdown. L’artista presenta fino al 9 gennaio opere realizzate negli ultimi cinque anni e le accosta ai lavori storici, dominati dagli elementi principali della sua poetica: i suoni, la performance, lo spazio. È lo stesso direttore di Palazzo Grassi, Bruno Racine, un francese innamorato della lingua italiana tanto da presiedere il comitato parigino della Dante Alighieri, a introdurci alla mostra.
«Visitare l’esposizione significa scoprire uno dei più importanti artisti di oggi», afferma. Curriculum prestigioso (è stato direttore a Villa Medici e presidente del Centre Pompidou), Racine vive davanti alla Giudecca, che da queste parti chiamano l’isola nell’isola. È arrivato lo scorso maggio, quando la pandemia aveva appena iniziato a lasciare i suoi segni. «Ho trovato una città ferita», racconta. «Ma per tornare a farla risplendere servono nuove idee. Bisogna fermare la diminuzione della popolazione locale e promuovere l’arrivo di studenti e ricercatori. Sogno una Venezia che sia un polo mondiale per lo studio e per la ricerca. Non solo un soggetto letterario ma qualcosa di vivo e in perenne movimento».
Da Punta della Dogana raggiungiamo il ponte dell’Accademia e poi Palazzo Franchetti, dove sono esposti i quadri di uno dei pittori più delicati del Novecento italiano: Massimo Campigli. Una pagana felicità, dal 22 maggio al 30 settembre, contrappone le sue tipiche figure femminili, tenui e quasi sussurrate, con alcuni reperti etruschi che lo avevano ispirato a Roma poco più che trentenne. Il risultato è un’esibizione tenera e fragile. Un po’ come tutto quello che ci circonda.
La sosta successiva è Palazzo Vendramin Grimani, tra i luoghi più belli della città cinquecentesca, affacciato sul Canal Grande. È la prima volta che apre al pubblico. A pochi metri da Campo San Polo, tra Ca’ Cappello e il Querini Dubois, sarà la nuova sede della Fondazione dell’Albero d’Oro, creata da un gruppo di imprenditori francesi e veneziani innamorati del luogo. Nella dimora, che dischiude i battenti il 24 maggio, sono esposti dipinti delle collezioni private e della famiglia Grimani dell’Albero d’Oro, oltre alle foto inedite di Patrick Tourneboeuf. «Ho lavorato al progetto in un gelido pomeriggio di febbraio», confida l’artista. «L’atmosfera era triste, ho girato un po’ spaesato per le strade vuote. Non ci volevo credere. Venezia è vita. Un po’ come la mia Parigi. Tutto qui è movimento. C’è il vociare della gente, il mercato, i tavolini all’aperto, i musei. La pandemia ha spazzato via ogni cosa, ha messo in crisi l’anima della città. Il futuro? Cambierà molto. La speranza è che si arrivi a “consumare” il mondo meno velocemente di prima».
A meno di dieci minuti a piedi da Palazzo Vendramin Grimani, c’è Ca’ Corner della Regina, sede veneziana della Fondazione Prada, dove è allestita la mostra Stop Painting. Si tratta di un progetto ideato dall’artista Peter Fischli e da lui stesso definito «un caleidoscopio di gesti ripudiati». L’esposizione, grazie a 110 opere firmate da un’ottantina di pittori, scultori e performer, ci rivela i cinque momenti clou in cui la pittura ha rischiato di scomparire nel corso degli ultimi 150 anni. Dall’avvento della fotografia a quello dei collage, fino alla rivoluzione digitale, che secondo Fischli può rappresentare l’origine di una nuova crisi o l’inizio della rinascita. Un po’ come è stato per la pandemia. Anche lei ci ha messo davanti a un bivio e, per dirla con Capote, sta a noi ora decidere se tornare a mangiare cioccolatini al liquore fino all’estasi oppure rinunciarci per sempre.
La foto in apertura: Red Regatta (Coppa del Presidente della Repubblica,
San Giorgio Maggiore) di Melissa McGill, alla Galleria Mazzoleni di Londra fino al 18/9, è uno degli scatti del libro Red Regatta (Marsilio), che sarà presentato il 20 giugno alla Base Nautica Associazione Vela al Terzo Venezia ai Bacini-Fondamente Nove.