Nove mesi dopo. Se fissiamo l’inizio della pandemia in Italia a marzo, e calcoliamo i nove mesi di una maternità, arriviamo a dicembre, in cui l’Istat ha registrato un -21,63% di nascite. Un triste primato che non ha eguali in Europa. Certo, la denatalità è un problema che il nostro Paese si trascina da anni. Basta pensare che nel 2019 - sempre secondo l’Istat - sono nati solo 420mila bambini, 20mila in meno rispetto all’anno precedente, ben 150mila in meno rispetto a 10 anni prima.
«Il Covid ha aggravato la situazione e indotto molte donne, o meglio molte coppie, a posticipare il momento di concepire un figlio. Perché ha acuito i problemi legati soprattutto alla condizione femminile. Le donne, che già partivano con lavori più precari, instabili e con salari più bassi, sono quelle che hanno pagato il prezzo più elevato», spiega Mila Spicola, funzionaria al Dipartimento di coesione della Presidenza del Consiglio, esperta di denatalità e cofondatrice del Giusto Mezzo, associazione che si batte per lo stanziamento dei soldi del Recovery Fund per politiche femminili. Secondo l’Istat, solo a dicembre 2020, su 101mila posti di lavoro persi, 99mila appartenevano a donne. Dunque, in quei nove mesi, sulle loro scelte hanno pesato paura, precarietà, impoverimento e perdita del lavoro.

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Courtesy photo Il Giusto Mezzo
Mila Spicola funzionaria al Dipartimento di coesione della Presidenza del Consiglio, esperta di denatalità e cofondatrice del Giusto Mezzo, associazione che si batte per lo stanziamento dei soldi del Recovery Fund per politiche femminili.

«La professione femminile è il nodo cruciale», spiega anche Chiara Gribaudo, 39 anni, vicecapogruppo Pd alla Camera e componente della Commissione lavoro. «E smentiamo la mentalità patriarcale del nostro Paese: non è vero che se le donne stanno a casa fanno figli. Come pure va sfatato lo stereotipo della prolifica donna del Sud. Vero, invece, che più la donna è libera e autonoma, più aumentano i servizi che la accompagnano a partecipare al mercato del lavoro, più sarà messa nelle condizioni ottimali di poter scegliere».

-21,6% è il calo di nascite a dicembre 2020. Esattamente nove mesi dopo l’inizio della pandemia.

Precisazioni quanto mai calzanti calcolando che il nostro Paese, secondo gli ultimi dati Istat, detiene altri primati europei negativi: il tasso più basso di occupazione femminile (49% rispetto alla media Ue del 62,4%), che peggiora al Sud (sotto il 30%) e migliora al Nord (oltre il 65%) dove ci sono più servizi. E un numero troppo basso di coppie giovani con figli (28%) in cui lavorano entrambi a tempo pieno. Considerazioni che si traducono in domande tipo: «Se oggi faccio un figlio, domani avrò (ancora) un lavoro? E se non ho servizi dovrò stare a casa?».

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Courtesy photo Il Giusto Mezzo
Chiara Gribaudo, vicecapogruppo Pd alla Camera e componente della Commissione lavoro.

Fondamentali sono gli aiuti alla famiglia. Che in Italia sono pochi, spesso sotto forma di bonus. «Ma un welfare robusto per l’infanzia, ovvero 0-3 anni, parte prima di tutto dagli asili nido», aggiunge Spicola. «In Italia siamo al 24,7% ovvero, ogni 100 bambini, poco meno di 25 hanno un posto. Statistica con molte disparità: picchi in Emilia-Romagna del 45% e solo il 10% in Sicilia. L’Europa ci impone di arrivare almeno al 33%. Noi del Giusto Mezzo lo stiamo chiedendo al governo: bisogna utilizzare i soldi del Recovery Fund per potenziare un welfare di cura diffuso. In questo gli asili sono fondamentali perché hanno un impatto economico moltiplicatore. Ovvero, se si investe sulle competenze del bambino, oltre ad azzerare il contesto iniziale, a sviluppare plus come le capacità neurolinguistiche, emozionali e di autonomia, si ha un ritorno su tutto ciò che c’è intorno: il lavoro generato (educatori, mense ecc.) e il tempo liberato delle donne». Dunque, per invertire il calo demografico occorre partire dal lavoro femminile, passando per gli asili. E finire con politiche di conciliazione. Il famoso work-life balance è parte del problema.

«Più che conciliare si deve condividere», precisa però Gribaudo. «Un terzo dei bimbi in Italia, infatti, nasce all’interno dei matrimoni (crollati nel 2020 per la pandemia, ndr). E questo significa congedi di paternità obbligatori: da noi siamo appena passati da 6 a 10 giorni, troppo poco. Occorrono shock legislativi: per esempio, il part time di coppia agevolato per arrivare così a una vera condivisione genitoriale». «È un errore ipotizzare che l’assegno universale (in Italia partono a luglio per ogni figlio 0-21 anni, ndr) possa funzionare da solo: i Paesi che l’hanno introdotto lo affiancano a politiche di irrobustimento del welfare della prima infanzia, altrimenti le donne sono portate a rimanere a casa», chiosa Spicola.

24,7 % i bambini che hanno un posto all’asilo nido. 45% in Emilia Romagna, solo 10% in Sicilia

Il malessere demografico passa anche dal numero di figli per donna: in Italia, la media è di 1,27, lontano dall’1,90 della Francia. «Dopo il primo bambino una coppia, peggio se è una single, si accorge dell’impoverimento. E i secondi e terzi diventano un lusso». Bisogna fare in fretta, perché il rischio è quello di ritrovarci nel 2100, come scrive la rivista scientifica The Lancet riportando uno studio della University of Washington, in soli 31 milioni di italiani rispetto agli attuali 61.