Remota, evocativa, freddissima. riassumere l'Alaska è apparentemente facile. La quarta parola per associazione potrebbe essere lei, Sarah Palin, che una parola non è ma è stata colei che ha contribuito a far risalire le quotazioni giornalistiche dello stato più grande delle cinquantuno stelle americane. E i brividi vengono su dalle gambe al petto, il posto più freddo è qui, al 58° parallelo Nord. Sminuzzato in isole e isolette, fiordi a strapiombo di ghiaccio, segato di netto tracciando una linea dritta su una mappa per separarlo dal Canada. L’Alaska, grande paese o terraferma in lingua aleutina (gli indigeni originariamente suoi abitanti, parenti alla lontana degli Inuit per semplificare), è un luogo inspiegabile. Usato spesso nella nostra pancia europea per definire un luogo ghiacciato (come la vicina Siberia), apparentemente inaccessibile, lontanissimo da tutto e da tutti. Cosa che in effetti è, per noi affacciati sul Mediterraneo, ma non per i russi cui basta saltare gli 82 chilometri dello stretto di Bering per raggiungerla. Alaska porto della guerra fredda -pardon, gelata-, l’unico stato americano non negli USA (confina solo con il Canada e l’Oceano). Che rischia anche di veder scomparire le sue peculiari caratteristiche geologiche e climatiche per colpa del global warming, come ha raccontato il reporter Mark Jenkins con un long-form delle sue (dis)avventure in Alaska pubblicato su Smithsonian Mag.

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Un esempio? La descrizione del suo quasi annegamento al Wrangell-St. Elias National Park and Preserve, centro sud del paese. Un parco naturale meraviglioso (il più grande degli Stati Uniti, più vasto della superficie combinata di Yosemite, Yellowstone e della Svizzera messi insieme) messo duramente a rischio dall’innalzarsi delle temperature negli ultimi 50 anni, ma che resta una delle cose da vedere in Alaska. Prima che scompaia, forse? “Avevo sentito dire che l’intero paesaggio era stato profondamente alterato dal caldo e dallo scioglimento accelerato, ma pensavo che i segni fossero meno visibili” ha commentato Jenskins di fronte al fango che ha rischiato di travolgerlo mentre si avventurava sul lungofiume. I 3.000 ghiacciai del parco, dominati dal Bering Glacier che è il più grande dell’intera nazione, creano una sorta di fiabesco mondo di ghiaccio formatosi lentamente nel corso di millenni e che oggi rischia di sciogliersi troppo rapidamente. Ingrossando i fiumi, causando inondazioni e modificando in maniera irrecuperabile la conformazione fisica dell’Alaska nei libri di geografia. Il tutto nel silenzio generale, ché l’Alaska non è il Polo Nord. Non ha il fascino silenzioso dell’Antartide, non è meta di fotografi agguerriti pronti a documentare con mesi e mesi di appostamenti il riscaldamento globale. L’Alaska, dopo gli exploit politici di Sarah Palin, non fa più notizia. I suoi abitanti, ruvidi e testardi come la gente di montagna è abituata ad essere, non vorrebbero l’attenzione di tutti come stato simbolo del climate change, ma sono costretti a farlo. Perché l’Alaska è il vero into the wild (senza la colonna sonora di Eddie Vedder e il volto di Emile Hirsch) ed è qui che si può vedere al massimo l'effetto tremendo del riscaldamento globale. Ha bisogno di essere conosciuta per questo, ma anche non per questo. Perché i parchi naturali dell’Alaska sono tra i migliori esempi di conservazione naturale al mondo dopo che la sua storia antica di minatori, spogliata di ogni poesia o storytelling (l’Alaska è fornitore di gas e petrolio), ha messo da sempre alla prova i terreni duri della regione. L’industrializzazione progressiva e la scoperta del vero oro del nord ovest hanno radicalmente modificato le terre estreme: la ricerca del rame, altro che Klondike e zio Paperone, fu uno dei primi motivi per andare a vivere in Alaska. Il rame è stato per lungo tempo la ricchezza vera dello stato, bucherellato qua e là alla ricerca del preziosissimo metallo indispensabile per l’energia elettrica contemporanea. Nei primi del Novecento, la miniera Bonanza (chiamata così da Tarantula Jack Smith, cacciatore d’oro e altre finezze) era la vera ricchezza dell’Alaska, tanto che la mining town di Kennecott, al centro dell’attuale Wrangell-St. Elias National Park and Preserve, era fiorentissima. Con la caduta del prezzo del rame negli anni 30 anche le fortune abbandonarono la città, diventata presto un luogo fantasma. Oggi è un luogo da visitare, qualcuno ci abita, le guide ti portano in tour: ma è difficile non pensare alla quantità di persone che la abitavano nel passato, i 600 minatori che negli anni Dieci del 900 contribuirono a forgiarne la fama.

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L’Alaska è uno stato difficile. Non per le persone, in realtà, ma proprio per la sua conformazione particolare, la sua vicinanza al polo nord. Le sue montagne stupende: tra i luoghi da vedere in Alaska c’è di sicuro il McKinley, la montagna più alta d’America con i suoi 6194 metri di altezza. Impresa per pro sia chiaro (non a caso quando la stagione delle nevi finisce in Europa la meta ideale - per chi può permetterselo - è un costosissimo volo ad Anchorage per sciare in Alaska in stato di grazia). E se siete cacciatori di aurore boreali, in Alaska le troverete da settembre ad aprile, con un po’ di pazienza. Se invece volete andare in Alaska d’estate, sappiatelo: il sole non tramonta mai. Ma proprio MAI MAI MAI. A malapena la luce si abbassa per due ore in una notte che notte non è, specialmente nelle zone più a nord dello stato. La vita prosegue durante la notte, i ritmi circadiani sono sballati e incomprensibili per noi, eppure gli alaskians non si fanno il benché minimo problema. “Le persone che vivono qui lo fanno per scelta. Chiunque sia qui ama questo posto” ha raccontato la guida Kelly Glascott. E devi veramente volerci stare, in Alaska, come ha fatto il sessantenne Mark Vail, naturalista e contadino delle terre estreme che avevano soli 26 giorni l’anno senza ghiaccio sul terreno. Ma ora non è più così: “I fiumi stanno crescendo di portata mentre i ghiacciai diminuiscono e si ritirano. Il Kennicott si è ritirato di quasi un chilometro da quando sono qui” ha raccontato Vail, che sta documentando con i suoi occhi la scomparsa progressiva dei ghiacciai. Chi invece studia proprio in Alaska il riscaldamento globale è Michael Loso, un glaciologo che ha raccontato l’improvvisa scomparsa dell’Iceberg Lake, un lago ghiacciato che si è prosciugato nel 1998. Talmente troppo caldo perché il ghiaccio che lo formava resistesse ulteriormente, il lago si è dissolto nelle acque del Tana River. E da allora non si è più riformato: l’analisi dei sedimenti progressivi ha dimostrato che quel lago è riuscito a resistere a tutti i cambiamenti climatici dal 442 avanti Cristo al 1998, tranne che al riscaldamento globale. Lo studio e il monitoraggio di questi totemici termometri vecchi di secoli, così Loso ha definito i ghiacciai, è l’unico modo per contenere e comprendere il global warming: che insidia l’Alaska e i suoi paesaggi mozzafiato. “Per la maggior parte delle persone il cambiamento climatico è un’astrazione, è talmente lento che è impercettibile. Ma qui non è così. Qui i ghiacciai raccontano tutta la storia.” E anche gli animali simbolo dell'Alaska, come orsi e alci, facilissimi da incontrare a bordo strada appena fuori i piccoli centri abitati. L'Alaska è una fuga dalla realtà. Da visitare prima che sia davvero troppo tardi.

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