Non so dire come è cominciato. La vita è fatta di dettagli e nella mia ce ne sono stati tanti sin da piccolo. L’atlante che mi ha regalato mio nonno, il mappamondo di mio zio, i viaggi con i miei genitori e le mie sorelle quando con l’auto partivamo alla scoperta degli Stati Uniti. E la nonna con i suoi racconti sulla Germania del dopoguerra. La mia famiglia è stata sempre fonte di ispirazione prima e sostegno dopo. E i miei non mi hanno mai detto: «Non partire». Ma sempre: «Stai attento». Poi c’è stata la scuola superiore, il Collegio del Mondo Unito, a Montezuma nel Nuovo Messico, dai 16 ai 18 anni, un istituto internazionale che fa della diversità un vanto. Quei 200 studenti che venivano da 90 paesi diversi sono stati gli amici che sono andato a trovare in giro per il mondo, le mie prime mete. Tutto mi ha spinto a viaggiare.

sal lavallo ragazzo che visitato 194 paesipinterest
Sal Lavallo
27 anni, americano dell’indiana, Sal Lavallo è figlio di immigrati: il padre è italo-americano, la madre tedesca. Qui in Afghanistan.

Sono nato a Evansville, una cittadina dell’Indiana, e con orgoglio posso dire di aver visitato ben 194 paesi nel mondo. Mi chiamo Sal Lavallo, ho 27 anni e mio padre è di origine italiana - Sal sta per Salvatore -, mia madre è tedesca. Da piccolo ho fatto quello che hanno fatto tanti bambini americani, ma sono cresciuto con un imprinting multietnico. Ricordo bene il primo viaggio intercontinentale con mio padre. Avevo 13 anni, siamo stati due settimane in Giappone e Cina. Tokyo agli occhi di un bambino appariva un enorme crogiolo di razze, gente coi cellulari e nei ristoranti piatti di portata condivisi. E il secondo, in Germania, a 16 anni con la nonna materna. Lei che mi aveva raccontato delle sue difficoltà nel crescere una figlia da sola perché il marito era emigrato in America, mi ha portato a conoscere le sue e le mie origini. Che grande donna, che forza se penso che quando ha attraversato l’Atlantico per raggiungere il marito non c’erano WhatsApp e Skype. Dopo è stato il turno dell’Argentina da parenti italiani, poi in Messico con la scuola, il primo da solo, nel 2008, in Australia e Nuova Zelanda e i viaggi dove sono andato a trovare i compagni di classe: Repubblica Ceca, Italia, Spagna, Olanda, Nicaragua, Costa Rica, Giamaica…

Alla fine dei miei studi universitari - mi sono laureato a New York in Cultural inclusive development - ho lavorato per tre mesi a Mumbai e tre anni in una società di consulenza, la McKinsey di Abu Dhabi. Due luoghi fantastici per volare in poche ore in stati dell’Estremo Oriente e del Nord Africa. E come consulente ho trascorso tre mesi in Egitto, quattro in Pakistan, due in Arabia Saudita, due in Nuova Zelanda, sei in Kenya.

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Sal Lavallo
«Esco dalla mia comfort zone e parto. Ho un bagaglio leggero, porto con me poche cose». Qui in Australia.

Sei passaporti, 50 visti più i 30 chiesti all’arrivo negli aeroporti. Nel 2016, quando ho lasciato il lavoro per prendermi una pausa, avevo già visitato 115 paesi. E mi sono detto: perché non continuare? Era diventata una sfida, volevo registrare un primato: quello del più giovane viaggiatore al mondo. E non mi sono più fermato.
Esco dalla mia comfort zone e parto. Ho un bagaglio leggero, porto con me poche cose: t-shirt bianche, un diario su cui ogni giorno annoto pensieri e storie e un Kindle. Il resto si può comprare ovunque. Non sono un turista, anche se ho visitato le piramidi e sono salito sulla Tour Eiffel. Vedo posti per ritrovare amici e conoscere la gente, perché sono curioso, voglio capire, esplorare culture, religioni, classi sociali. Sono un privilegiato, ma non ricco. Non so dire quanti soldi ho speso in questi anni, certo non vado nei grandi alberghi e mi sposto per lo più con mezzi di trasporto locali.

Sono andato ovunque. Guardo la mappa e ricordo il viso delle persone che ho incontrato. Le due palestinesi che nel 2011 mi hanno riportato a casa della mia amica quando mi ero perso. La donna anziana in Guinea nell’estate del 2016, incontrata mentre stavo facendo un giro nell’Africa occidentale: in un villaggio dove mi ero fermato, dopo una giornata in moto su strade sterrate, ero stanco, sporco, parlavamo due lingue diverse, ma mi ha sorriso e mi ha permesso di farle una foto quando tutti non volevano. O la stessa estate quel ragazzo senza passaporto che veniva dalla Liberia diretto in Europa con il quale, una notte, ho condiviso un trasferimento su uno scomodo bus verso la Libia. Abbiamo parlato di Messi e Ronaldo, di ragazze e matrimonio. Per 24 ore ho condiviso con lui la stessa situazione eppure quanto eravamo diversi: poco prima della frontiera è sceso ed è sparito. E quella donna in Mongolia che, seduta davanti alla sua jurta, mi ha offerto del cibo, mi ha indicato la Kaaba e con il rosario in mano in due lingue diverse abbiamo pregato insieme. Dio e Allah. O la mia guida “obbligata” in Nord Corea con cui ho bevuto birra come fossimo due occidentali. Perché è questo che mi rimane alla fine del viaggio: le persone, i volti, le storie.

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Sal Lavallo
Sal Lavallo in Mongolia. «Lì - ricorda - una donna seduta davanti alla sua jurta, mi ha offerto del cibo, mi ha indicato la Kaaba e con il rosario in mano in due lingue diverse abbiamo pregato insieme. Dio e Allah».

Quando arrivo in un aeroporto o in hotel spesso guardano il nome sul passaporto e mi chiedono: italiano? Non mi sento più né americano, né italiano e neppure tedesco. La mia identità non è più la stessa, sono apolide. E mi è difficile spiegare quanto e come sono cambiato, perché dipende da come gli altri mi vedono. L’anno scorso mi sono tinto i capelli biondi perché era di moda in Irlanda, ma poi quando sono andato in Algeria mi guardavano tutti male. È una questione di percezione: ho imparato a non curarmi del giudizio della gente, ci sarà sempre qualcuno a cui non piaci.

Non ho paura quando viaggio. E comunque non vado in zone di guerra o aree pericolose, anche se, dopo gli attentati di Nizza e Barcellona, mi risulta difficile declinare questo concetto. Molti dicono che sono coraggioso e mi hanno ringraziato sui social perché ho postato un tramonto in Afghanistan e un matrimonio a Damasco. Ho passato tante frontiere, ma mi piace sempre tornare a casa. Casa per me sono l’Indiana e il Texas dove ci sono i genitori e le sorelle, Mangula, un villaggio in Tanzania dove durante gli anni dell’università con la mia fidanzata abbiamo creato una onlus, Trail of Seeds, per aiutare fattorie locali e Abu Dhabi, dove ho un piccolo appartamento. Quando mi chiedono cosa ho imparato tutti si aspettano risposte su grandi concetti: economia, razze, costumi. Rispondo solo: ovunque nel mondo tutti ballano.
A novembre ho visitato Malta, il 193esimo paese: per festeggiare mi sono fatto raggiungere dai miei genitori. Pensavo di fermarmi, poi sono finito in Marocco per fare foto per un’agenzia turistica. Ma domani torno ad Abu Dhabi a lavorare. Mio padre me lo chiede da tempo.

Ogni immagine è stata presa dal profilo Istagram di Sal Lavallo.