Il Salento, terra dagli inverni solitamente pacifici, in estate è caratterizzato da lotte intestine per l’occupazione dei due principali territori di cui è composto: lotte aspre come per la conquista di un Trono di sdraio. Costa ionica e costa adriatica – due mondi, due stili di vacanza e di vita, apparentemente inconciliabili – si fronteggiano per i tre mesi fatidici di giugno, luglio e agosto. Anno dopo anno, la battaglia è sempre più appassionante, ma non è detto che non conosca occasioni di tregua, sotto forma di una danza pacificatoria tipica: la pizzica tarantata.

Da una parte c’è il Salento ionico, in cui il potere temporale è concentrato nella baia di Gallipoli (o Approdo del dj), e in cui la riuscita della vacanza consiste, principalmente, nel raggiungere due obiettivi: 1) occupare ogni centimetro quadrato di spazio a disposizione; 2) farlo nel modo più rumoroso e fastidioso possibile – per sé e per gli altri. Il segreto è mostrare di aver capito, facendo sì con la testa al beat pompato dalle casse - tutti insieme! -, che la felicità e la vita stessa sulla terra non siano possibili nel silenzio e nel comfort.

Dall’altra parte, il Salento adriatico, di cui Santa Maria di Leuca è il principale centro spirituale (Alto barchino). Ah, il suo profumo di origano selvatico; quella deliziosa Weltanschauung ancora relativamente latifondistica, che tutto pervade; le memorabili cene in piedi, in cui anche le più grandi signore, autoctone o visiting, vengono messe alla porta se non portano con sé una ‘ncartata con qualcosa di cucinato in casa, meglio se altrui! Qui non importa quanto rarefatta sia la popolazione: anche a un tête-à-tête a lume di candela, c’è sempre qualcuno di troppo. Qui il figlio unico è un must, perché in genere è più quieto, e meno problematico per l’asse ereditario.

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Il primo Salento, quello ionico, ha un serio problema di horror vacui; il secondo, l’adriatico, soffre di paura del pieno. Il primo affitta come posti letto (non sempre singoli) anche i balconi delle case condominiali; il secondo conserva ancora le cosiddette bagnarole: piccole costruzioni in pietra, in tinta con la villa di riferimento, che nascondevano al loro interno una vasca scavata nella roccia, collegata direttamente al mare, in cui un tempo le padrone di casa si bagnavano, invisibili a chiunque, in una forma radicale tanto di privé quanto di protezione solare.

Il bello è che queste due appartenenze socio-vacanziere valgono tanto per i locali quanto per i forestieri. In certi casi, un leccese purosangue tende a non essere meno unno dell’ospite proveniente da altre regionalità, e viceversa. Le categorie vengono attribuite all’arrivo in Salento il primo anno e, tradizionalmente, è pressoché impossibile che l’assegnazione cambi, neanche in casi di acerrimi ricorsi, un po’ come quando il cappello parlante di Hogwarts ti iscrive a Grifondoro invece che a Serpeverde.

L’unico terreno sul quale questi due mondi sembrano trovare un minimo sindacale di elementi comuni è il festival musicale conosciuto come la Notte della Taranta, la serie di eventi di musica folklorica tradizionale più frequentata d’Europa. È l’unico festival al mondo dove puoi ritrovarti a Galatina a ballare con Laetitia Casta, che ti chiede gentilmente di reggerle una birra Dreher (la birra operaia per eccellenza nel Salento).

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È un po’ come in quel bellissimo film di Davide Barletti e Lorenzo Conte che è la Guerra dei cafoni, in cui due eserciti di ragazzini, che parlano uno straordinario esperanto panpugliese fatto di tutti i dialetti regionali possibili e impossibili, si contendono un pezzetto di terra e di acqua, dividendosi tra signori e cafoni, ma scoprendo infine di essere fatti tutti della stessa pasta (di grano duro).

Dalla sceneggiatura di quel film (tratta da un libro di Carlo D’Amicis) prendiamo in prestito, per comodità, le due espressioni, che non indicano reale cafonaggine né, del resto, effettiva signorilità, ma più che altro rendono meno astratto un contrasto che, altrimenti, correrebbe il rischio di restare troppo concettuale.

Alla Taranta la pace tra Ionio e Adriatico sussiste solo perché il loro conflitto è talmente in continuo mutamento, in un eterno gioco delle parti, proprio come nel turbinare di una danza, che non è più possibile distinguere una frangia dall’altra. Mentre i signori vorrebbero primeggiare anche nei passi umili della pizzica, i cafoni possono ostentare la loro maggiore dimestichezza con la coreografia, cosa che il signore, per una volta, guarda con la stessa invidia con cui guarda il mare o il sangue del vicino, che è sempre più blu. Nascono così amori istantanei, site-specific, tra signori e cafoni, i Montecchi e i Capuleti temporanei di questo universo parallelo che è il Salento estivo.

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La coreografia stessa della pizzica, tradizionalmente rimedio contro il veleno dei ragni campestri, simboleggia bene questo dissidio/unione. In origine c’erano musici frenetici, ossessivi, che suonavano i loro strumenti – violini e tamburelli – fino a costringere la pizzicata a dimenarsi talmente tanto che finiva per espellere il veleno che aveva in corpo, procuratole dal morso dell’artropode. Forse, il segreto della pace offerta dalla Taranta è che, danzando insieme, come due mari impetuosi che si incontrano, signori e cafoni sono entrambi convinti di essere il musico che prova a espellere il veleno dell’altro, ma non lo sanno e si divertono lo stesso.