Mettendo il naso nella bottega del Marmoraro di via Margutta, soprattutto verso l’ora di pranzo, la prima cosa che ti colpisce è il fitto velo tricolore - e triodore - di cui è ammantata: una parte di sigaro toscano, una parte di polvere di marmo e una parte di aglio soffritto. Solo in un secondo momento, quando gli occhi cominciano a filtrare la nebbiolina, vedi gli oggetti per cui questo luogo è famoso nel mondo, e che sembrano occupare ogni centimetro quadrato lasciato libero dai libri o dai turisti: piccole lastre di marmo bianco stracolme di lettere, di parole e di frasi: alcune irriverenti, altre vietate ai minori, quasi tutte sagge. Se non fosse che la maggior parte dei testi è incisa nel dialetto romanesco di oggi, penseresti di essere capitato nella minivilla fatta costruire da qualche Puffo Pretore a ruota di epigrafia, o di un ratto teverino che ha fatto i soldi e col pallino dell’Antica Roma.

Per ultima cosa vedi e senti lui, il Maestro Sandro, che picchietta allegramente con la mazzuola dal fondo della bottega, e che sembra dirti e non dirti (non tanto a voce, quanto a colpi di scalpello), con tutto il rispetto e il dispetto del romano non adulterato: “Fa pure come se fossi a casa tua, ma non rompere niente, grazie, soprattutto le scatole”.

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Degli ultimi tre o quattro bottegai ancora attivi in via Margutta (dei quaranta che erano non più di trent’anni fa) solo il Marmoraro - evoluzionismo alla mano - fa non uno, ma due mestieri altrettanto bene, di cui il primo - il marmista - gli dà il pane, e il secondo - il cuoco bracista - gli permette di dare vita a un microscopico ed esclusivissimo club di cui è anche anfitrione, cameriere e inflessibile usciere.

Non sappiamo quale sia il lavoro di copertura e quale sia il vero mestiere del Marmoraro. Fatto sta che Sandro di Enrico Fiorentini ha due core business, e in entrambi è leader di mercato: le parole incise nel marmo e la carne cotta al camino, tutto nella stessa bottega. Per entrambe le arti, sono le sue mani e la materia prima a fare la differenza.

Fu in punto di morte, otto anni fa, che Enrico chiese a Sandro di continuare il suo lavoro in bottega e lui, con tanto di laurea in architettura, accettò, pensando, tra l’altro, che sarebbe stato meglio essere un marmoraro felice che un architetto fallito. Oggi le produzioni di Enrico, che si riconoscono solo per la forma delle lettere un po’ diversa da quella di Sandro, non sono in vendita, ma sono tutte esposte nella bottega.

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Perché comprare qualcosa che passerà di moda l’anno prossimo dai tutto a 600 euro di via del Babuino, quando, per 15 euro, in via Margutta, potete comprare un pezzo di eternità? Delle lastre di Sandro, ce n’è per tutte le tasche. A questo supremo specialista della lapide non funeraria, ma estremamente vitale, si può chiedere di tutto. I suoi lavori di post-it indelebili, cartelli Facebook ante litteram e monocromatici, che hanno l’ardire di fermare nello spazio di pochi centimetri quadrati una massima imperitura o, viceversa, spiegare, in un blocco soprapporta di un metro e mezzo, l’importanza di non andare di corpo troppo spesso, specialmente la sera.

Ci sono gli epigrammi long seller (su tutti: “Il tempo fugge, ma ‘ndo cazzo va?”, “Qui se drocamo solo de pasta e facioli”, “Aiutate che Dio s’è areso”). E ci sono le frasi di circostanza, dettate dagli avventori privi di ispirazione, quelle che danno più filo da torcere all’esprit de finesse del Marmoraro (“Ciao Roma”, “La dolce vita”). A volte, però, la richiesta è ancora più ardua: incidere ideogrammi. “Nemmeno quel cinese, alla fine, sapeva più che diavolo gli avevo scritto”.

Sandro sfotte un turista russo, all’apparenza alto-spendente - che chiede, urta, straparla, mette a dura prova l’inglese del Maestro, ma alla fine prende solo un rettangolino di poche parole. Se si mette male, ci sono comunque i monosillabi da 5 euro: SI e NO, sempre validi. Alle bruttissime, si compra una vocale.

Ogni tanto il Maestro si sveglia con un’idea nuova e ne fa un pezzo unico. Come lo smartstone, il palmare di pietra, che esce dallo stand by con un colpo di mazzuola e su cui si può scrivere solo con l’interfaccia dell’Apple Pencil di duemila anni fa: lo scalpello.

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Siccome Sandro non è multitasking, quando arriva l’ora, lascia il marmo e si mette a cucinare. L’orario è sempre lo stesso: all’una in punto, a tavola. “All’una, chi c’è c’è, io magno”. Questa regola ha infranto molti stomaci, come quello di una principessa romana, messa alla porta perché in ritardo di dieci minuti. Infatti, quella che sembra solo un’antica bottega artigiana è anche uno dei club gastronomici più ambiti ed esclusivi della Capitale, di certo più ristretto, nei ranghi, del Circolo degli Scacchi (a pochi passi dal Marmoraro, in via del Corso, di cui almeno un paio di soci illustri sono assidui anche dal Marmoraro). Una star di Hollywood della A list ha le stesse chance di sedere al suo desco di porfido da 4 quintali (“Sul porfido ci mangiamo solo io e gli imperatori”) di un sartino stagista dell’ultima casa di moda aperta nella via.

Così è fatto Sandro e così era fatto suo padre, prima di lui. Romani fino alle cotiche: sempre perfettamente a tu per tu coi potenti, coi principi e le celebrità, ed emozionabili fino alle lacrime, quando un passante qualunque gli chiede una storia della vecchia Roma, un gossip d’epoca su Giulietta Masina o, più spesso: “Che c’è oggi per pranzo?”.

“Non vado mai al ristorante, perché si mangia meglio qui”, può vantare il Maestro. Martedì e venerdì pesce. La puttanesca è la preferita di Alona, l’amica kazaka più habitué. Ma non sbaglia di certo quando propone coda alla vaccinara o abbacchio alla cacciatora. Dove è imbattibile è nella doppia bruschetta, immensa, una pagnotta intera sacrificata nel camino divisa in due, senza mollica, riempita di tutto.

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La regina delle grandi occasioni è la Chianina di 24 mesi, frollata 24 giorni, fornita da Annibale in via di Ripetta, il macellaio più famoso di Roma. Annibale ha contribuito a numerosi pranzi dell’una, ottenendo in cambio da Sandro amicizia eterna, altre prelibatezze (“certi pomodorini del piénnolo del Vesuvio con cui mi ci potevo comprare un’altra bottega”) e, soprattutto, la medaglia al valore più pesante e ambita che ci sia, per un bottegaio romano: la lastra tonda con su scritto “Io so’ un pezzo de Roma”. La possono esporre solo in tre: lui, il pescivendolo di via della Croce e il Marmoraro stesso.

Anche le rare volte in cui davanti al camino non c’è la fila, per restare a galla devi ballare una complessa quadriglia con le collezioni permanenti della bottega. Ritratti, sculture, dediche, riconoscimenti; intere opere enciclopediche Treccani (Arte antica e arte medievale, più un grande volume su Pompei); le copie, fresche di stampa, del manuale di autoterapia di coppia che un amico, Fausto Passi, ha chiesto al Maestro di distribuire ai tanti fidanzatini che vengono a trovarlo.

Se invece c’è gente, soprattutto quando Sandro ha già qualcosa sul fuoco, il pavimento diventa una scacchiera, e ogni mossa deve essere ponderata, e guai a cedere la propria posizione, anche perché le norme di precedenza, a quella tavola, non sono più trasparenti di quelle dell’ammissione stessa.

“Se la bocca di questo camino potesse parlare”, ama ripetere Sandro quando ricorda i personaggi che sono passati da lui per pranzo, nel tempo. Di certo, parlano molto le foto dell’archivio storico di questo circolo della brace, che sono conservate gelosamente in un angolo della bottega.

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Per entrare nel circolo della brace, devi essere nel mood simposio, altrimenti, meglio non provarci neanche. Non sai mai se parli troppo o troppo poco. C’è un solo modo di verificare il proprio status: essere invitati ancora. Le umiliazioni più cocenti arrivano quando non capisci da solo che è finita e il Marmoraro, che è un romano autentico, e per questo anche un signore, invece che espellerti fisicamente, si mette la giacca, chiede scusa e chiude bottega per qualche ora, arrabbiato come una biscia per il sapore del panino che gli si prefigura, ma soddisfatto di non aver intaccato l’idea del suo cenacolo.

Così, nei minuscoli spazi della bottega, in cui è difficile posare i piedi senza calpestare una sillaba o un dittongo, oggetti effimeri e valori permanenti si prendono a braccetto. La più grossa bistecca, qui, dura al massimo dieci minuti, prima che l’orologio riprenda a ticchettare, e con lui lo scalpello. Eppure chissà se, delle due linee di prodotto del Marmoraro, una fatta di pietra, di polvere e di fatica, e una di proteine, carboidrati e relazioni esterne appassionate, non sia quella culinaria e conviviale la meno effimera. Chissà se le parole scambiate durante quei pranzi non siano più durevoli di quelle incise nel marmo?

Sandro sa di non essere immortale e non è affatto sicuro che le sue due figlie, un giorno, terranno il negozio. Ma non per questo è meno ottimista e sereno. Perché ci vorrebbe un bel coraggio, una volta trasformata la bottega del Marmoraro fosse anche in un bio bistrot vegetariano, per cavare dal pavimento della soglia la più importante di tutte le lastre che qui siano mai state incise: “Io sarò sempre qui“.