Luci, motore, azione. Il tapis roulant che dalla moquette sottile dell’aereo mi fa scivolare dritta sul marmo lucido dell’area visti del JFK mi sembra più lungo del viaggio che ho appena fatto: Milano - New York, capitali immaginifiche di sogni concretissimi, ognuna a modo suo. X piedi da terra, X fusi orari, X vassoietti pollo Masala-penne all’Arrabbiata dopo, atterro con legeresse d’animo e cuore pesante di battiti nella città che non dorme mai, che non spegne le sue luci mai, che non visiterai tutta mai, che non vorrai lasciare mai. Dal pavé lastricato dai tacchettii/ticchettii delle sciùre meneghine all’asfalto che fuma umidità e fajitas piccanti, fino a toccare l’ultimo piano dell’ultimo grattacielo annuvolato, fino a toccare la mansarda emotiva nascosta dentro di noi, abitanti temporanei/esploratori eterni di quella Mela impossibile da mordere in tutta la sua interezza.

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Warren Jagger

STAMP! Come un’onomatopea da fumetto, il suono compatto del timbro dell’ufficiale di dogana mi sveglia dalla catarsi intercontinentale, mi stampa un “Accepted” sul passaporto, mi stampa un sorriso scemo tra mento e mascelle. Sono a New York e a breve sarò un salmone che risale da professionista il piumone soffice del più particolare hotel di Manhattan. Sono a New York, perché l’aria è monopolizzata dal coriandolo che fa l’amore con il mais fritto che corteggia lo sciroppo d’acero, sono a New York perché il traffico è una THING considerevole ma poco importa se è una scusa per guardare lo skyline di fronte a te per qualche minuto in più, sono a New York perché forse la gente don’t give a fuck di te ma, quando riconosce quel sorriso scemo che ti porti appresso, ti fa un occhiolino che è il benvenuto più americano che si possa sperare. Sono a New York perché davanti all’entrata del mio hotel in Times Square c’è un’insegna XXL fluo e vetrate a specchio (delle mie brame) in cui scorre neon lasvegasiano e calcestruzzo a stelle e strisce puro. Nemmeno il finestrino oscurato del mio Uber (P.S. Quando ritornano in Italia???) non è in grado di contrastare l’illuminazione a giorno della scritta magenta Moxy. Sono in piena 7th Avenue (civico 485 per l’esattezza), sono in piedi col mio trolley accanto mentre ogni cliché sulla viabilità newyorchese mi si para davanti, sono in estasi da centrifuga di New York bevuta come uno shot.

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Warren Jagger

Tra la 36esima strada e la Fashion Avenue, a metà di quegli 8,5 chilometri su cui è scritta la storia degli stilisti che hanno fatto la storia della couture americana, l’hotel Moxy Times Square è la casa in cui farò finta di dormire aspettando che sia di nuovo giorno, è l’hotel in centro a New York con i prezzi più competitivi tra gli hotel economici a New York e con quella preziosa allure industrial chic che nessun hotel low cost a New York possiede. È il posto in cui lascerò il cuore (e ancora non lo so). Quello che so, ancora prima di fare il primo passo sul pavimento terrazzo alla veneziana (SI è tornato di moda, SI se lo dicono gli americani...), è che in questo hotel Heidi Klum organizza i suoi party totemici, Rihanna aftershow da settimana della moda, Tony Bennet micro concerti per micro pubblici macro fortunati. Ah, e che si tratta di uno dei primi alberghi al mondo ispirato al concetto di urban camping, ovvero: spazi e “soprammobili” stringati, comfort e servizi tailor-made ampissimi. Della serie: una manciata di metri quadrati in meno a stanza e una manciata di coni gelato à porter in più, preparati in presa diretta dall’ice cream machine in sala relax. Della serie: un buffet della colazione intercontinentale in meno (con rischi di delusioni gourmet intercontinentali) in cambio di un bar uovo-centrico (The Egghead) dove far shopping mattutino a suon di sandwich, caffè giganti e waffles croccantissimi. Della serie: diciamo tutti insieme NO alle smancerie ufficiose da receptionist impomatati su banconi imponenti e SÌ a check-in in autonomia tramite chioschetti tablet muniti. Okay, per i più imbranati (non parlo per me, ovvvvio) c’è anche “l’aiuto da casa”, personale giovane e preparato pronto ad aiutarti nell’iter di accomodation. “Lavoravo nell’organizzazione di festival musicali in giro per l’America ma mi mancava maledettamente New York. Mi sono detta: se torni, ragazza, è per fare qualcosa di veramente figo”, mi racconta Amy, 26enne promessa dello staff dell’hotel, mentre mi passa un gettone stile autoscontri per ritirare il mio drink gratis al Bar Moxy.

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Ecco, quello del bar, è l’unico bancone meraviglia (per le dimensioni e per la miriade di bottiglie luccicanti dritte come soldatini) che voglio vedere e vedrò. Con pollice e indice che pregustano già lo stelo sottile di un calice, faccio per prendere l’ascensore, senza aver prima scattato una foto di arrivo per il media wall Instagram-friendly all’entrata (Moxy Digital Guestbook) e infilato la testa a curiosare nel corner barbiere (Blind Barber). Dove tra una poltrona vintage e una noce di pomata per capelli, offrono whisky ai clienti della New York dei (futuri) gentleman.

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Vodka al pompelmo, yuzu e melograno, il cocktail Foxy Moxy (codice colore Pantone: Pink Millennial, of course!) è praticamente la prima cosa che si dovrebbe bere a New York per stemperare il jet lag. Se poi lo fai su divanetti vista Fashion Avenue, social table pennellati di copper e compagni di drink resident newyorkesissimi... Rischi di fare il tuo debutto in camera 3 ore dopo il tuo arrivo effettivo. Sulle piastrelle a mosaico della doccia (sulla grandezza di quest’ultima NON sono affatto stati avari) c’è scritto "No Diving", ma insegno volentieri agli americani il detto “orecchie da mercante”. Loro invece mi insegnano come ci si fa venire un groppo in gola guardando dalla finestra di un grattacielo, tutte le volte che si vuole. All’alba, quando ai primi raggi del sole si unisce il giallo dei taxi-razzi su corsia preferenziale. A notte fonda, quando tirar giù le tende equivale a spegnere la tv di fronte al tuo programma preferito (l’incrocio iconico di Times Square è a 5 minuti a piedi dall’hotel, impossibile non immaginare le luci con cui farci trafiggere cornea e cuore). “Le camere sono essenziali, ma in cambio vi diamo tutta Manhattan”, mi spiegherà più tardi Mitchell Hochberg, Presidente del Gruppo Lightstone che insieme al colosso Marriott International ha sviluppato i progetti di Moxy Times Square e altri 5 “fratelli”(uno fra tutti, Moxy Chelsea in dirittura d’apertura). Tanto minimalista quanto funzionale come un ryokan giapponese (vedi i tavolinetti e le sedute pieghevoli e intercambiabili), tanto industrial quanto natural inspired (vedi il lavabo in pietra francese d’antan e il canvas e la pelle e i legni declinati in nuances iper rilassanti), tanto elegante quanto un hotel in centro a New York può essere, quanto “effetto camping estivo” come solo l’hotel più originale di New York può essere (immaginato). Perché se non riusciamo a prendere sonno possiamo guardare Netflix su maxi schermo o ascoltare le favole della buonanotte premendo un tasto dal telefono vintage, perché ci sono letti a castello per (inguaribili) bambini e quadruple con letti che si guardano per pijama (addio al nubilato) party.

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Warren Jagger

“Moxy Times Square è nato nel settembre del 2017, ma la sua anima accogliente risale al 1907”, continua Hochberg. Più di 100 anni fa, questa struttura ospitava il Mills Hotel, residenza storica di New York. Noi abbiamo voluto onorarne la memoria riprendendone i piani strutturali per ricostruirlo alla Moxy maniera. Persino i menu del bar ricordano quelli della caffetteria affollatissima che popolava questi spazi, dove con 80 centesimi ordinavi caffè e fetta di torta fatta in casa”. Duemila metri quadrati e 612 camere dagli interni delicatamente curati da Yabu Pushelberg, tre eating ‘n’ chilling spot pensati da Rockwell Group e gestiti dalla pietra miliare del food and beverage internazionale TAO Group (P.S. Tanto amore per la brasserie marina Legasea). Gli incastri architettonici a regola d’arte hanno la firma dello studio Stonehill Taylor, e vengono celebrati dalla e nella lobby dell’hotel. Un open space dove il coworking si fa spostando i mobili come si vuole, e il drinking da tiratardi coi piedi sui pouf senza che nessuno punti il dito (sì, mamma ne abbiamo già una).

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Warren Jagger

C’è l’Empire State Building che si tocca con un selfie, il Theater District, l’High Line e il Madison Square Garden, c’è una giostra che al posto dei cavalli ha dei sofa di piuma (sì, certo che gira dolcemente), ci sono speakeasy dentro speakeasy effetto matrioska urbana, c’è il rooftop bar più grande di un hotel all-season a New York (Magic Hour Rooftop Bar & Lounge). Dove puoi ordinare un Margarita Gummy Bear, una disco ball colma di Tiki Punch, cupcake alla vaniglia e rum e un cestino di ice cream sandwich.

Scorro il cocktail menu col dito, alla ricerca dell’ultimo drink che resta da provare: Posso dormire da te? (Vivo dall’altra parte della città oppure... beh, abbiamo capito). No, non è l’ultimo segreto della mixologia contemporanea, ma l’ultimo (forse) colpo di scena di questo pazzo pazzo spettacolo in cui ti senti (forse ci sei) al centro del mondo.

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Warren Jagger